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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Giochi di famiglia di Biljana Srbijanovic secondo Paolo Magelli

Il palcoscenico montato su tubolari d’acciaio e occupato da una betoniera è arretrato sullo sfondo per ricordare l’ipotesi di una ricostruzione, mentre l’azione vera e propria avviene principalmente sull’asfalto crepato di un ampio parco giochi in disuso, tra cumuli di macerie e calcinacci, tubature spezzate e pozzanghere di sangue, giostre sgangherate e giocattoli di plastica sparsi un po’ ovunque. Un panorama apocalittico vagamente surreale che anche senza la presenza degli attori, racconta l’orrore di in paese sconquassato dalla guerra e dalla repressione. La Srbijanovic, più nota al pubblico italiano per le sue pagine apparse sul quotidiano la Repubblica e pubblicate in un libro intitolato Diari di Belgrado, ha in mente i conflitti e la dittatura del nazionalista Slobodan Milosevic, ma Giochi di famiglia può anche essere letto come metafora della paralisi morale dell’Europa intera. Protagonisti della storia, o meglio delle storie di cui il dramma episodico si compone, sono quattro bambini dai dieci ai dodici anni, che giocano a fare i grandi e che inscenando il mondo adulto che li opprime, tirano fuori una violenza e una perversione inaudite.

La regia dello slavista Paolo Magelli che del testo ha curato anche la traduzione, si avvale un gruppo di cinque giovani attori molto versatili che si sottopongono ad un durissimo tour de force fisico per dar vita ad una rappresentazione energica e dinamica della devastazione morale e della frantumazione dell’individuo prodotte da una guerra che cancella le tracce umane. La drammaturgia di Giochi di famiglia, è per molti versi impervia perché si prefigge di trasfigurare l’orrore della cronaca in una sorta di tragicommedia crudele che, spingendo l’acceleratore sul paradosso e sul grottesco, rischia di ridurre la portata tragica della rappresentazione. Ma la difficoltà principale della messa in scena è insita nella natura ibrida dei personaggi che possono essere visti sia come bambini invecchiati che come adulti mai cresciuti. Sia nella prima che nella seconda ipotesi, i personaggi si configurano come persone irrisolte o incompiute.

Magelli che dell’opera della Srbijanova è il conoscitore più autorevole in Italia (ha già messo in scena Supermarket e Barbelo) sceglie di tradurre visivamente il punto di vista infantile attraverso modalità teatrali che strizzano l’occhio al fumetto, al vaudeville e alle arti circensi. I personaggi bambini si riconoscono in quanto tali perché gli attori indossano abiti troppo larghi e scarpe tanto lunghe da ostacolare il loro continuo andirivieni sulla scena, e anche perché lo spazio in cui si muovono è talmente ampio e dispersivo da farli sembrare più piccoli. Ma il punto di vista infantile di rado trapela tra le maglie dei discorsi che fanno per scimmiottare gli adulti.

Lo spettacolo è preceduto da un prologo recitato da un operaio in tuta da lavoro e casco blu arrampicato su una impalcatura laterale, una figura che non ha un vero e proprio ruolo drammatico, ma che si aggira tra le rovine della scena per l’intera rappresentazione. La sua presenza simboleggia la volontà di ricostruire un paese in ginocchio e la sua premessa verbale, recitata con raro virtuosismo fonetico, suona come un racconto per bambini dove si narra di ponti crollati per la violenza dei fiumi in piena e del destino di tante goccioline d’acqua che rimangono intrappolate in una cisterna. La voce che altalena tra i toni gravi dell’adulto a quelli più striduli del bambino, accompagna gli spettatori nello spazio desolato della innocenza perduta. La quarta parete di una casupola di amianto si schianta a terra per rivelare i tre protagonisti di sette atroci vignette familiari. Sono mamma, papà e figlio, allineati come attori alla ribalta al momento dei saluti, abbigliati di stracci fuori misura che li fanno assomigliare a dei clown. Una famiglia proletaria dove la madre viene picchiata dal marito e dove madre e padre prendono a calci il figlio al quale è negato il diritto di parola. L’unica raccomandazione che il ragazzo riceve dal padre è quella di rispettare le regole imposte dalla società e di non dire mai ciò che si pensa. Al gruppo si aggiunge poi una bambina che si trascina a quattro zampe tra i tubolari. La etichettano come immigrata o disabile, ma alla fine decidono di adottarla come cane da compagnia. I luoghi comuni xenofobi si sprecano nei loro discorsi impastati di violenza e di volgarità.

Negli episodi che seguono i bambini fanno il verso ad altre tipologie sociali. C’è la famiglia borghese, la mamma in carriera che scrive articoli da quattro soldi e che prede a pesci in faccia il marito; c’è l’arricchito dalla guerra che trema alla sola idea che i conflitti possano giungere a un termine; c’è la famiglia che si finge morta e che viene risvegliata dal figlio che ha deciso di emigrare in un altro paese ma che poi rimane immobile tra i rottami (la diaspora giovanile durante il regime è al centro di Trilogia di Belgrado del 1997). Botte, stupri, parti, suicidi e violenze di ogni genere rimpolpano i canovacci della strampalata compagnia e ogni episodio si conclude regolarmente con l’uccisione rituale dei genitori. Per questi bambini la sopraffazione e l’abuso di potere sono la normalità e il male è diventato tanto banale da non spaventarli più. Ma la verità della tragedia non arriva come dovrebbe anche perché tutto risulta troppo artefatto, esageratamente comico e soprattutto perché la brutalità è meccanica e ripetitiva come quella dei cartoni animati. Nel suo insieme, questa sorta di agit-prop produce un certo impatto e coinvolge lo spettatore a forza di pugni nello stomaco, ma la reiterazione di gesti e situazioni rischia di allentare la tensione e di disperdere l’attenzione, soprattutto dalla seconda metà in poi. La regia richiama gli elementi beckettiani presenti nel testo, (si pensa a Lucky e a Pozzo quando la bambina – cane vie trascinata al guinzaglio), ma la proliferazione di oggetti e di colpi di scena, azzerano quel vago senso di sospensione e di vana attesa alla Godot che dovrebbe accompagnare i giochi con i quali i bambini ammazzano il tempo perché non hanno più futuro.



Scheda tecnica

Giochi di famiglia di Biljana Srbljanovic.  Scene : Lorenzo Banci.  Musiche: Arturo Annecchino.

Con Valentina Banci, Mauro Malinverno, Francesco Borchi, Elisa Cecilia Langone, Fabio Mascagni.  Regia di Paolo Magelli.

Produzione Teatro Metastasio Stabile di Toscana.

Visto al Mittelfest di Cividale del Friuli il 22 luglio 2011.

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