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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Testuali parole

C’è Vanità e vanità

 

 

Georges de La Tour, Maddalena penitente (dettaglio)


Una parola quasi dimenticata, “vanità”, è caduta in oblio proprio nel tempo del trionfo di quel modo di essere che designa (forse non a caso). Quella specie di vizio, lieve o grave, debolezza o pecca, comune a tutti, diffuso da sempre e mai passato di moda, oggi ha ricevuto un incremento abnorme con i social. Mettersi in mostra per ricevere approvazione e soprattutto ammirazione ispira o impegna, non di rado, la scelta di far parte di una comunità on line.

“Vanità delle vanità, tutto è vanità”: del Libro dei libri è la saggezza prima e ultima, l’ammonimento, per ciò da cui l’uomo più subisce e meno riceve. Hanno colto nel segno pensatori e filosofi: essa delude perché allontana dalla sincerità, costringe a una maschera, a una posa. Più che mai l’etimo del termine ne rivela la natura di vuotezza e inutilità.

Eppure, nessuno ne è immune.

Tappa ineliminabile da superare è la “Fiera della Vanità”, organizzata da Belzebù, come l’immagina J. Bunyan nel viaggio in sogno del pellegrino. Lì si vende di tutto e tutto è merce: terre e case, onori, piaceri, figlie e mogli, corpi e anime e si commettono gli svariati crimini che l’uomo ha escogitato per danneggiare il Prossimo.

H. Fielding, in Joseph Andrews, per spiegare le ragioni di una disputa tra due persone e il motivo di uno zelo apparentemente immotivato, chiama in causa la Vanità a cui poi si rivolge con un’appassionata apostrofe: “O Vanità! Non si riconosce la tua forza, come inganni con i tuoi travestimenti! Nascosto sotto ammirate virtù è il tuo movente segreto. Chi ha l’impudenza di ammettere che non fa che cercarti e godere delle tue grazie?” Passioni e comportamenti, probi o colpevoli, sono da essa dettati.

W. M. Thackeray ne racconta il dispiegarsi con ironia raffinata e strepitosa, sulle orme di Fielding (che si pone a fianco della pittura di costume dell’amico Hogarth). È la “commedia umana”, dal ridicolo al dramma. E l’imbonitore confessa il senso di profonda malinconia di chi dovrà mettere in scena la galleria di vizi e meschinità di questa fiera. “Ah! Vanitas vanitatum! Chi di noi è felice in questo mondo? Chi ha realizzato i propri desideri? O, avendoli realizzati, è soddisfatto? Venite via, bambini, chiudiamo il teatrino e mettiamo a posto le marionette: la commedia è finita.”

Thackeray è riuscito a “nascondere” in Vanity Fair una delle più belle e romantiche storie d’amore; in un capolavoro dominato dal realismo spietato nel quale il cinismo sembra prevalere nelle vicende umane e “colorare” di sé tutti i modi di essere, dabbenaggine, furbizia, malvagità. È un amore che non appare protagonista, nobile, disinteressato, di una dedizione completa, generoso e ideale fino al silenzioso sacrificio, che sarà però alla fine premiato.

Il fenomeno dei social rivela una vanità (essi ne sono amplificatori e canali), da parte degli internauti, capillare e ordinaria, al punto da sembrare normalità; assume mille forme e si perde in mille rivoli ed espressione di un desiderio, anche comprensibile, che nei casi estremi tuttavia diviene smania, o mania, di protagonismo. I più avveduti e consapevoli che se ne concedono un “pizzico” lo definiscono narcisismo: è interessante la rimozione del termine vanità, più preciso, avvertito come antiquato e invece assai attuale.

In effetti mentre individuare la natura di una debolezza così manifesta è forse più “semplice”, non altrettanto è distinguere la Vanità dalla Superbia, dall’orgoglio, dal narcisismo, dall’egotismo e dall’amor proprio, con i quali ha pure aspetti in comune. A complicare l’analisi c’è l’uso della parola riferito sia a tutto ciò che si persegue e non ha vero valore, sia all’atteggiarsi del vanitoso che si caratterizza, nei casi più spudorati o ridicoli, in altezzosità o leziosaggini. Una compresenza di significati che si ritrova nell’arte, che ha trattato la vanità come soggetto “minore”, intesa come eccesso di attenzione al proprio aspetto fisico o, con più profonde “radici” e altri “autori”, riferendola alla caducità della vita, nel memento mori e nella natura morta.

Lo specchio è il simbolo fisso nel caso che a essere preso di mira sia il vanesio e a specchiarsi è quasi sempre una donna. Da attributo in positivo della Verità (e talvolta della Prudenza) che lo brandisce come strumento che restituisce fedelmente la realtà e lo offre per riconoscersi e vedersi come si è, passa in negativo a mezzo di tentazione e perdizione della vanità. Nel senso più spicciolo di civetteria, di ricerca di abbellirsi per piacere.

Nel film Il posto delle fragole, ad esempio,nel sogno del protagonista la fanciulla amata nella giovinezza è una “Verità” che tiene lo specchio di fronte al viso del vecchio e lo costringe a vedersi com’è: ciò diventa la consapevolezza di un tempo ormai passato e della vanità d’inseguirlo.

La donna, invece, colta nell’operazione di specchiarsi, con il diavolo che sovrintende all’operazione,rappresenta addirittura uno dei più gravi peccati nella Superbia di H. Bosch.

Lo specchio (e quello del “doppio”) è un argomento a sé stante, come pure la Vanitas (natura morta). La natura morta, che qui non consideriamo, “tende” sempre a trasformarsi in vanitas,e spesso lo fa esplicitamente con ingredienti ricorrenti (candele, bolle di sapone, teschi, clessidre, fiori recisi o appassiti, frutta bacata, pipe produttrici di fumo, ecc.) ma combinati in modi sempre nuovi e talora bizzarri o macabri.  Impressionante è “Memento mori” di Jacopo Ligozzi con un teschio riflesso in uno specchio con resti di umanità (di carne) negli occhi e nell’espressione gridante, agghindato da gioielli e con la veste.

La vanità intesa in un aspetto un po’marginale o meno grave si attiene di solito alla donna allo specchio. In realtà il tema della caducità della vita e della presenza incombente della morte è sconfinato e sempre attuale,va dalla classicità sino ai giorni nostri, anche a quelli più recenti di un mondo contemporaneo caratterizzato dal consumismo e dai rifiuti. Si va dal Memento mori (con teschi e scheletri) presente, più o meno, nell’arte di tutti i tempi (passando per L’incontro dei tre vivi e dei tre morti, Il Trionfo della Morte e altri momenti, fonte di meditazione, dell’arte medievale) all’effimero dei giorni nostri, alla stanchezza esistenziale di comportamenti e falsi valori del presente.

Nell’immagine della “donna allo specchio” si con-fondono i temi e molto dipende dalle epoche e dagli autori. Il soggetto, a partire dal Cinquecento, è affrontato soprattutto nel Seicento (e ripreso nell’Ottocento): ne evidenziamo delle opere.

Le tre età della donna (1510) di Hans Baldung Grien.

Donna allo specchio di Tiziano, che ne ha dipinte almeno due versioni, in particolare quella del 1512-15, e una forse degli allievi con la donna nuda.

Giovane donna nuda allo specchio di Giovanni Bellini (del 1515) con l’uso di due specchi per guardarsi l’acconciatura dietro la testa.

La Vanità, la Modestia, la Morte (1569) di Jan der Straet (Stradano).

Allegoria della Vanità (1580) di Franz Hals.

Conversione della Maddalena (1599) di Caravaggio: altro tema ricorrente con la donna che abbandona i gioielli.

Maddalena penitente quattro versioni di Georges de La Tour con la donna allo specchio con un teschio e una candela (dal 1635 al 1645); in una di queste opere (1640), assai pregevole, la sola immagine riflessa nello specchio è la candela con la sua lunga fiamma.

Allegoria della Vanità (1620-34) di Trophime Bigot con i soliti elementi.

Allegoria della Vanità (1633) di Jan Miense Molenaer.

Vanità (1633 o 1635) di Hendrick Gerritsz.

La vecchia civetta (1635) di Bernardo Strozzi.

Allegorie (1640 ca.) in disegni di Pieter Nolpe.

Vanitas (1650-70) di Mattia Preti che più volte dipinge la Maddalena penitente.

Allegoria della vanità della vita (1679) di Nicolaes van Verendael.

Allegoria della Vanità (del Seicento) di Pietro della Vecchia.

Vanitas (1886) di Léon Bazile Perrault.

Tutto è vanità (1892) di Charles Allan Gilbert, illustrazione con l’immagine della donna che da lontano si legge come un teschio. Con forte valenza simbolica la donna si “trasforma” in allegoria o natura morta.

Vanità (1910) di John William Waterhouse.

Civetteria (1911) di Félix Vallotton.

Franz Hals

 

Bernardo Strozzi



Léon Bazile Perrault



Charles Allan Gilbert

 

Una curiosità: nella fiaba Biancaneve la regina interpella lo specchio magico con una formula che presenta una fortunata “traduzione”: “delle mie brame”, per rima con reame (ed è in effetti è lo specchio del desiderio) dal tedesco an der Wand (sul muro) per rima con Land.

Di contro c’è il “Falò delle vanità” (celebre è la battaglia religiosa-culturale e alla lettera, concreta, guidata dal Savonarola a Firenze nel 1497) che si ripresenta nella storia in forme diverse e non è certo la soluzione del problema.

L’argomento Vanità merita ben altre analisi e studi e a quelli rimandiamo. È l’uomo di fronte al niente, il “nulla eterno” (Foscolo) o a un aldilà?

Pulvis et umbra sumus (Orazio)

“Che quanto piace al mondo è breve sogno” (Petrarca)

“E l’infinita vanità del tutto” (Leopardi)

“L’uomo è una passione inutile” (Sartre).

 

 

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