Statistiche dal 2010

Visite agli articoli
4410822

Abbiamo 209 visitatori online

Cerca nel sito

Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

non ha scopo di lucro, non propone alcuna pubblicità e ha come unico interesse la diffusione della cultura.
Pertanto, le immagini pubblicate si attengono all'a
rticolo 70, comma 1bis della legge sul diritto d’autore, dove si afferma che è possibile la "libera pubblicazione attraverso la rete Internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro".


Iscriviti al nostro
canale WhatsApp
sul cellulare

 - Nuova informativa sui cookie -

 


Testuali parole

Due racconti d'arte di Daniele Del Giudice

 

La mia personale scoperta di Daniele Del Giudice, non molti anni fa, è stata casuale, dovuta a una recensione in cui il suo nome veniva posto in relazione a libri di altri scrittori. Incuriosito, lessi Atlante Occidentale, per molti il suo capolavoro, e lo trovai - devo ammetterlo - in parte noioso, in parte non chiaro, anche se scritto con talento letterario indiscutibile. Mi chiesi che senso avesse quella distaccata descrizione di un'amicizia anomala tra il vecchio scrittore e il giovane scienziato, anche se avevo trovato decisamente apprezzabile l'assenza, per una volta, di chiacchiere o dialoghi inutili e di banalità legate ai sentimenti. Oggi, quel primo giudizio è sostanzialmente cambiato.

Per qualche anno ho dimenticato Del Giudice, ma ecco di nuovo un dato casuale e assolutamente drammatico che mi spinge verso di lui: leggo su una rivista il suo nome riferito alla legge Bacchelli e scopro che lo sfortunato scrittore ha l'Alzheimer e vive ora in un ospizio specializzato alla Giudecca, a Venezia, la sua città d'adozione. Una pietà profonda, strano a dirsi, alimenta la curiosità ed eccomi a comprare altri suoi libri, i Racconti, poi Staccando l'ombra da terra, poi In questa luce.

Nessuno di questi libri è un romanzo, l'Atlante era un racconto lungo, gli altri sono racconti e brevi saggi. A mio parere, alcune cose non sembrano perfette, a volte l'autore è criptico e sembra non volerci dire tutto, ma nella produzione di Del Giudice ci sono molti brani straordinari, alcune pagine sorprendenti e soprattutto mai banali. Tra i suoi temi, molti argomenti tecnici e una capacità di intuire il futuro, come la stupidità di molti programmi televisivi o la virtualità delle relazioni in Internet. Se poi si sente o almeno si intuisce la sua profonda passione per il volo, per la conoscenza e la guida degli aeroplani, alcune pagine che ha scritto sono tra le più coinvolgenti della nostra letteratura.

Leggo con piacere, oggi 27 luglio 2021, mentre sto scrivendo questo articolo su di lui, che a Daniele Del Giudice è stato assegnato il premio Campiello alla carriera. Eppure, sono molti i lettori abituali e intellettuali che ne ignorano i libri. Vincitore di numerosi premi letterari negli anni Ottanta e Novanta, la sua attuale popolarità è ridotta a un manipolo di seguaci, per quanto importanti come i giurati del Campiello; forse manca tra i suoi titoli un pezzo forte, un capolavoro, perché di questo si nutrono troppo spesso il pubblico e la critica letteraria.

Connessi alle mie competenze, che determinano ovviamente anche le preferenze, ci sono due racconti particolari come Nel museo di Reims e Fuga. Entrambi appartengono di diritto a una letteratura di alto livello e sono in grado, inoltre, di aprire le porte dell'arte anche a chi di arte si interessa poco o nulla.

Le opere disvelate nelle due storie sono diversissime, non solo perché una è un dipinto, La morte di Marat, e l'altra un'architettura, Il cimitero delle 366 fosse di Napoli, ma anche perché la prima è celeberrima e la seconda ignota persino a gran parte dei napoletani. Tra i talenti di Del Giudice c'è la capacità di scoprire luoghi e oggetti nei posti più disparati; i suoi racconti si svolgono a Ginevra, a Reims, a Londra, a Buenos Aires, a Rabat, a Napoli, a Edimburgo, e di ogni luogo l'autore sembra aver visto molto, sembra possedere una chiave per entrare in spazi generalmente chiusi.

La letteratura critica sul racconto Nel Museo di Reims ha generalmente affrontato la figura di Barnaba, il protagonista condannato a una precoce cecità, segnalandone gli enigmatici aspetti comportamentali, oscuri come oscura o meglio sfocata è la sua vista. “E’ da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura”, la prima riga già ci precipita in un mare di contraddizioni, come ad esempio di servirsi della scrittura per vedere.

La trama è apparentemente semplice: Barnaba visita il museo di Reims per vedere dal vero La morte di Marat di David e incontra Anne, che lo aiuta a vedere gli altri quadri della collezione: ma i due impiegano più tempo del previsto e si trovano costretti a uscire prima di arrivare all'opera desiderata. Si incontreranno tuttavia nel museo il giorno dopo e la visita al grande quadro di Jacques-Louis David chiude il racconto.

Non mi interessa in questa sede affrontare la psicologia o la relazione di Barnaba e di Anne, quanto sottolineare il momento finale che – per quante recensioni del racconto io abbia letto – mi sembra sia stato trascurato nei suoi singolari dettagli: il quadro di David a Reims non è la versione universalmente studiata sui libri di storia, ovvero l'originale, che si trova invece a Bruxelles. Si tratta di una versione appena diversa, opera sempre del maestro (ma non universalmente attribuita). Nonostante le apparenze, non è una leggerezza o un errore di Del Giudice, ma è anzi la definitiva conferma, che forse l'autore vuole rivelare solo a pochi, del tema che avvolge la singolare trama del racconto, la finzione e l'accettazione della finzione. I due personaggi che si incontrano nel museo e vi trascorrono insieme alcune ore, sono complementari: Barnaba cerca di vedere, Anne vede ma aggiunge alla visione le sue fantasie. Barnaba si accorge che la ragazza inventa particolari nel descrivere gli altri quadri del museo, ma li accetta; e quando è il momento, sarà lui a svelarle e a svelarci straordinari particolari della vita di Marat, il rivoluzionario che era di fatto uno dei maggiori scienziati di Francia, in particolare – non a caso – nel campo della medicina oculistica.

 
A Bruxelles (sinistra) e a Reims (destra)

La descrizione effettiva del quadro non c'è, ma ci sono le impressioni che esso suscita e c'è soprattutto l'ultima rivelazione, per la quale è necessaria una spiegazione che, come preannunciato, non ho ancora trovato in altre recensioni del racconto.

La morte di Marat è un quadro del quale, come non di rado accadeva in passato, esistono alcune versioni, di mano del maestro o dei suoi allievi. Ma se la versione di Bruxelles è la principale e quella di Reims una versione minore, per quale motivo Del Giudice, con Barnaba, sceglie quest'ultima? La risposta è semplice: perché, come tutto il resto, è falsa, o, meglio, è parzialmente falsa. Avrei persino la tentazione di dire leggermente falsa, se in quell'avverbio non ci fossero troppe incertezze di interpretazione.

Sono le ultime righe del racconto a spiegarci tutto a chiare lettere. Barnaba sa perfettamente che sul cubo di legno dipinto accanto al cadavere di Marat, in questo quadro minore di Reims, c'è scritto: “N'ayant pu me corrompre ils m'ont assassiné” (“Non essendo riusciti a corrompermi mi hanno assassinato”). Barnaba conosce bene la frase, la recita a memoria nella sua testa e noi possiamo leggerla nel testo stesso; potrebbe dirla ad Anne, che gli chiede se riesce a vederla, ma sorprendentemente entrambi fingono di distinguere e leggere l'altra scritta, quella famosa di solo due parole scritta sull'originale di Bruxelles, “À MARAT, DAVID”.
Il racconto si chiude qui. 
La finzione è quindi evidente, ma è lieve, non determinante. I nostri dialoghi, le nostre amicizie, le nostre conoscenze, sembra dirci Del Giudice, si basano su finzioni, su parziali bugie, su accordi e compromessi illeciti, ma non tanto nel senso maligno dei termini, quanto nel senso del mentire benevolmente a se stessi, del dirsi e non dirsi la realtà delle cose, di accettare o non accettare la verità della vita.



Un altro racconto di Del Giudice parla di arte, o meglio di architettura, ed è Fuga, contenuto nella raccolta Mania del 1997. Il titolo vale doppio, perché la fuga di Santino è l'argomento della storia, ma il grande architetto Ferdinando Fuga è anche l'autore del Cimitero delle 366 fosse di Napoli. Santino ha fatto una sciocchezza, ha cercato di rubare la motocicletta di un delinquente, Pretannanze, e anche se l'ha lasciata perdere ed è scappato, il Pretannanze lo insegue per sparargli. Santino correndo a casaccio nel buio della città finisce in un luogo ignoto a tutti, un cimitero dismesso, e ne incontra il custode, che gliene racconta la storia. Per un grido di orrore del ragazzino, Pretannanze li scova e vuole ucciderli, ma il custode usando l'antico argano del cimitero prima lo colpisce alla testa e poi lo fa cadere nella giusta fossa del 28 agosto (perché è appunto il 28 agosto), numerata 241. Santino ne approfitta e scappa via, nella torrida e buia Napoli estiva. Questa la trama, intervallata, con paragrafi stampati in corsivo, da una descrizione accurata del Cimitero, la cui originalità è davvero sorprendente.


 Una fossa e l'argano del cimitero

Come per le sue indicazioni di volo, o per le descrizioni di fuochi d'artificio, di lotte, di fortezze militari, di posta elettronica, Del Giudice riesce ad abbinare sentimenti e razionalità. Santino è agitatissimo dopo il mancato furto e le minacce di Petrannanze, e sin dall'inizio la voce narrante si rivolge direttamente a lui, con un incipit straordinario, “Corre la notte Santino e tu corri con lei”. E quando il ragazzo entra nel misterioso rifugio:

“Dove sei? Non puoi saperlo, Santino, questo è un posto che a Napoli non lo ricorda nessuno, meglio dimenticare, anche se sforzi gli occhi per vedere meglio vedi solo una piazza quadrata e le mura su ogni lato, un pavimento di pietra vesuviana, dello stesso piperno grigio contro cui ti sei già sbucciato il ginocchio cadendo, il piazzale è tutto vuoto e pulito fino alle mura che lo cingono geometricamente. Una piazza d'armi ma le armi non ci sono, la corte d'una villa ma la villa non c'è, c'è solo lo spiazzo, una scatola perfetta e sgombra, tu ci sei dentro e non si vedono uscite, e in fondo non ti converrebbe uscirne”.

Proprio il cimitero è il vero protagonista del racconto, un cimitero – che oggi si può visitare – abbandonato per anni, ma la cui origine era nobile e peculiare. Destinato alla gente comune, quindi di fatto una fossa comune nella quale finiva chi non aveva i soldi per una tomba, fu costruito per volere dei Borbone e progettato da Ferdinando Fuga, l'architetto fiorentino che a Napoli costruì anche l'Albergo dei poveri e i Granili. Dettati da motivi di igiene e di ordine, e dal tentativo di far dimenticare le spese per la Reggia di Caserta, l'Ospizio e il Cimitero rientrano in un modello sociale illuminista e furono ottima materia per il genio di Fuga. Appoggiato alla collina di Poggioreale il cimitero è formato da un cortile quadrato che fa da tetto a diciannove per diciannove gallerie che si incrociano sottoterra, per un totale di 361 elementi, ovvero le fosse verticali in cui gettare i cadaveri. Con l'aggiunta di altre cinque fosse su un lato si ha quindi una fossa per ogni giorno, numerato da 1 a 366 secondo le cifre incise sulle lastre di copertura. Un argano mobile si spostava nel cortile per sollevare le lastre e consentire ogni giorno le sepolture. Il custode del cimitero lo spiega bene a Santino, che in realtà non ci capisce molto e probabilmente se ne dimenticherà:

“una fossa per ciascun giorno, trecentosessantacinque per tutto l'anno, più una per gli anni bisestili che di giorni ne hanno trecentosessantasei, ma tu come ti chiami?, Santino, bello, piccolo Sante, sì bello. Ma i numeri dove stanno?, non si vedono subito, e poi adesso è buio ma anche di giorno qui non si doveva vedere niente, uno spazio tutto uguale, un pavimento grigio perfetto, ben levigato, però se avvicino la lampada vedi che lì c'è scritto 117, lo vedi o non lo vedi?, lo vedo, e vedi il cerchio attorno al numero, c'è un po' d'erba perché è tanto che non si apre più, quello è il tappo, era il coperchio, vedi i tre piccoli anelli, lì si agganciava l'argano e si tirava su, ogni giorno dell'anno era una tomba, ogni giorno una fossa, e cosi via tutto l'anno, ogni anno dal 1° gennaio al 31 dicembre, ciascuna tomba s'apriva all'alba e si chiudeva al tramonto, chi c'era c'era, chi non c'era non c'era, sigillata a calce sarebbe stata riaperta solo nello stesso giorno dell'anno successivo.”

L'artificio evidente per cui il racconto è un pretesto per rivelarci l'esistenza del cimitero, non pesa affatto nella lettura e anzi diventa una qualità aggiunta, la fuga di Santino nel cimitero di Fuga; e difficilmente dopo averla letta non si avrà voglia di cercare di visitare il Cimitero delle 366 fosse in un prossimo viaggio a Napoli.

 

 

 

 

 

 

 

abbiamo aggiornato l'informativa sui cookie