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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Testuali parole

Banksy, arte come manifesto politico

 

Anche chi non segue le vicende artistiche conosce l’artista Banksy, attivista politico e genio del marketing, il quale fa parlare di sé oscurando la sua identità. “Banksy” è un marchio registrato nel 2008, legalmente rappresentato dalla società Pest Control Office Limited di Londra, che lui avrebbe costituito per fini non commerciali. Il “writer blu”, da artista anti-sistema dell’arte, non solo avrebbe registrato il suo nome per certificare l’autenticità delle sue opere, ma soprattutto per evitare che mercanti e gallerie d’arte lucrino sul suo lavoro, essendo egli un artista pubblico, artista del popolo che produce arte con finalità etiche. 

Flower bomber, murale, 2005, Gerusalemme

Flower bomberè una delle opere più note di Banksy, apparsa per la prima volta in un murale a Gerusalemme nel 2005. Raffigura il frame di una scena di guerriglia urbana: un manifestante sta per lanciare dei fiori al posto di una pietra o di una bottiglia molotov.

Pertanto Banksy realizza clandestinamente dei murales nelle periferie degradate delle grandi città, al fine di portare l’arte vicina a quel popolo che non frequenta musei e gallerie, lottando così, a suo modo, contro le élite culturali. Eppure basta fare un giro su internet per verificare che il mercato pullula di opere di Banksy in vendita. Per es. nel sito di aste Sotheby’s è stato aggiudicato per quasi 13 mln di dollari il famoso lanciatore di fiori o “Flower bomber” col titolo “Love Is In The Air”, una tela di cm 90 x 90, accompagnata da certificato di autenticità rilasciato da Pest Control. Allora mi domando: come ha fatto la sua opera ad arrivare nel gotha delle aste che lui tanto disprezza? Se la sua arte è di esclusiva “pubblica fruizione” perché Pest Control la vende anche ai privati? In ogni caso è la prova di quanto sia ambigua e illusoria la sua battaglia ideale contro la privatizzazione dell’arte.

Chiaramente la cifra di13 mln è il risultato di un’asta di cui si è giovato il collezionista proprietario del Banksy messo in vendita, non sono soldi incassati dall’artista, ma è pur sempre un riferimento dei valori in campo. Forse che il ricavato delle vendite di Pest Control venga sempre impiegato per fini sociali e umanitari, come ha fatto l’artista destinando degli utili all’acquisto di un’imbarcazione a favore dei migranti? Se le cose stanno veramente così, la sua società Pest Control non dovrebbe rendicontare pubblicamente i suoi bilanci?

Il suo metodo, inoltre, pone una serie di problematiche giuridiche, a partire dal fatto che egli realizza i murales su un supporto di proprietà altrui e senza alcuna autorizzazione preventiva; quindi, perché mai, i diritti di riproduzione spetterebbero a Banksy e non al proprietario del muro? Inoltre, egli non può opporsi a chi sfrutta il suo nome senza la preventiva autorizzazione di Pest Control, se prima non qualifica la sua identità. L’EUIPO (l’Ente europeo che regola il diritto della proprietà intellettuale) nel settembre 2020 ha definito Banksy in malafede, perché quando ha depositato il marchio non aveva alcuna intenzione di utilizzarlo, ma poi, a quanto pare, ci ha ripensato. Quindi, addio ai primitivi ideali, quando l’artista affermava che “Il diritto d’autore è dei perdenti”. E poi, difendersi dai privati che sfruttano le sue opere è un conto, ma citare in giudizio gli organizzatori della mostra “A visual protest. The art of Banksy” al museo Mudec di Milano nel 2018 è, secondo me, tutt’altra cosa.

Io credo che con Banksy si sia ricreato, ancora una volta, quell’ambiguo conflitto tra essere e avere, in cui un soggetto che si oppone a un potere costituito si trova a utilizzare con profitto gli stessi strumenti del potere che vorrebbe abbattere o modificare. Nei primi anni ’70 l’attore italo-francese Yves Montand – militante comunista e amico del filosofo di tendenza marxista Jean Paul Sartre – sollecitato sul tema ebbe a dire «Meglio un comunista in Mercedes che un colonello su un carro armato». Il riferimento era alla dittatura fascista greca e spagnola ancora vigente In Europa.

In quello stesso periodo mi trovai, da studente, a una conferenza di Renato Guttuso all’Accademia di belle arti di Palermo, e a un allievo che gli domandò perché i suoi quadri costassero così tanto, egli rispose: «Ciascuno vende le proprie scarpe, le mie costano care». Secondo me è stato un modo intellettualmente onesto di ammettere la contraddizione di un artista comunista che operava all’interno della logica di mercato della società capitalista.

Quindi, onore al merito all’attivista politico e al manager che ha brillantemente centrato gli obiettivi legati a tali ruoli, in quanto al Banksy artista… parliamone.

 

Balloon Girl, murale, Waterloo Bridge, Londra, 2004


Lo storico dell’arte Tomaso Montanari, che stimo molto, ha contrapposto l’anonimato di Banksy al divismo delle
artstars Jeff Koons, Maurizio Cattelan e Damien Hirst, considerati da lui artisti commerciali. Sarà anche vero, ma non mi convince l’idea di argomentare d’arte partendo dallo schieramento ideologico degli autori, che a me pare solo un pre-giudizio. Se Koons & C. donassero i loro patrimoni a favore di una causa sociale, ciò rivaluterebbero la loro arte in senso etico? Così come la Legge non appartiene al magistrato che la esercita, anche l’arte, una volta resa pubblica, si emancipa dall’artista che l’ha prodotta e diventa patrimonio collettivo.

Guernica”, forse l’opera più significativa del Novecento, non è considerata un capolavoro perché Picasso ha denunciato un crimine nazi-fascista, ma perché, attraverso il suo dirompente linguaggio innovativo, ha elevato quell’episodio specifico della Guerra Civile spagnola a delitto contro l’intera umanità. Quindi è la qualità estetica di “Guernica” la chiave di volta che dobbiamo prioritariamente considerare, non solo e non tanto il contenuto che essa rappresenta ma, soprattutto, “come” Picasso l’ha formalizzata.

Per me la Forma non è un bel vestito che il Contenuto indossa per apparire più attraente, ma è essa stessa il contenuto, allo stesso modo in cui McLuhan affermava che “Il medium è il messaggio”.

Da qualche decennio sono un collezionista di manifesti d’arte, e conosco la materia. Mi pare che non vi sia artista contemporaneo la cui opera è così vicina alla forma del poster, come quella di Banksy. I suoi stencil eseguiti con vernice spray sono dei poster a cui manca solo il lettering dello slogan. Trovo il suo linguaggio privo di vera tensione intellettuale. É assente nella sua opera quella energia mentale che lavora sottotraccia, che arriva nei meandri del pensiero senza eccitare la nostra emotività, ma dopo un lento percorso di intima riflessione e introspezione. I grandi artisti non hanno bisogno di enfasi, di urlare, non usano i superlativi, a meno che non li condiscano con una debordante ironia – come fa Quentin Tarantino nel cinema – ma io l’ironia in Banksy non riesco proprio a percepirla. Se non raramente come, appunto, nella sua opera “Pulp Fiction” in cui i due killer (John Travolta e Samuel L. Jackson) impugnano due banane al posto delle pistole. Ma nel bambino sfruttato di “Slave Labour”, dove sta l’ironia?

Qualcuno ha accostato Banksy a Warhol, ma direi che è un paragone improponibile, tranne che per due aspetti: entrambi si esprimono attraverso uno stile prevalentemente grafico, e hanno quotazioni vertiginose.

 

Slave labour (Lavoro da schiavo), murale, Londra, 2012


A stabilire la grande distanza tra i due è soprattutto il modo di porsi e di porre i contenuti espressi. Banksy è un artista moralista che illustra in modo didascalico i malesseri e le ingiustizie del nostro tempo, come farebbe, appunto, un poster con finalità sociali del tipo “pubblicità progresso”. Warhol non ci pensava nemmeno a ergersi a giudice contro i limiti della società americana, magari canzonava certi aspetti della cultura popolare di massa, dalle
Celebrities a Topolino, dalla zuppa Campbell all’immagine del mito consumato di Marilyn Monroe. Ma non giudicava, non emetteva sentenze, perché si sentiva figlio, forse anche compiaciuto, di quella nazione. Semplicemente le sue immagini sono uno specchio della società: “Vedete, cari americani” – è il suo implicito messaggio – “noi siamo la sedia elettrica e la Coca Cola”. Due icone che col loro semplice apparire nella scena artistica dei primi anni ’60, non solo hanno cambiato il corso dell’arte (di cui beneficia pure Banksy), ma hanno narrato con efficacia l’identità culturale, sociale ed economica degli States meglio di tanti studi socio-antropologici.

Perché l’artista non ha risposte da dare, ma deve suscitare delle domande, deve mettere in luce aspetti della realtà che sfuggono a uno sguardo comune. Quindi mi pare una corretta metodologia critica quella di separare l’opera dall’uomo che l’ha prodotta. Sul versante moralmente opposto a quello di Banksy, Caravaggio era un delinquente, ma questo non inficia di una virgola la sua formidabile opera pittorica.

L’artista nella sua piena libertà può esprimersi attraverso contenuti di impegno civile, mi pare ovvio, ma lo deve fare in modo sottile e intelligente, trovando soluzioni estetiche che non siano facilmente prevedibili. Egli non deve illustrare il catalogo dei buoni sentimenti denunciando i malesseri che viviamo (riscaldamento globale, atrocità della guerra, sfruttamento dei migranti e del lavoro minorile, inaccettabili disuguaglianze del sistema capitalista…) che fanno già parte del dibattito mainstream, come farebbe un giornalista, un politico, un sindacalista o le ONG.

L’ulteriore citazione di Banksy Non c'è niente di più pericoloso di qualcuno che vuole rendere il mondo un posto miglioreconferma la sua datata retorica buonista, già adottata dal movimento pacifista e dalla cultura hippie degli anni ’60, che si batteva contro la guerra del Vietnam: fate l’amore non la guerra; mettete dei fiori nei vostri cannoni...

Ma non è solo questo contenuto che ci riporta indietro nel tempo, anche l’espediente grafico già utilizzato di sostituire il particolare di un’immagine con un altro avulso dal suo contesto, allo scopo di capovolgerne il significato originario.

Come hanno fatto gli americani Ronald e Karen Bowen nel manifesto pacifista del 1969, a sua volta ispirato dalla celebre foto del soldato Joe Rosenthal del 1945, dove alcuni marines piantano la bandiera a stelle e strisce, dopo la conquista dell’isola di Iwo Jima, occupata in precedenza dai giapponesi, durante la Seconda Guerra Mondiale.


Il manifesto pacifista di Ronald e Karen Bowen del 1969


Domanda: quale differenza c’è tra questo poster e il
Bomber Flowers di Banksy?

La risposta è facile: quello dei Bowen è un semplice poster, quella di Banksy è un’opera milionaria.



 



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