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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Amsterdam, museo totale

 

La coppa dalle grandi orecchie propone, dalla stagione sportiva 1955/56, un contrappunto dialettico (alla mente) riservato all’apertura dei mercati europei, già in esercizio dal 1951 con la famosa CECA; si muove tutto da Parigi, tanto l’accordo siglato un tempo dai sei paesi ispiratori quanto l’assegnazione del primo trofeo continentale per club. Per quanto le microstorie del calcio si inscrivano nel più complesso scenario storiografico, non resta che prenderne atto e provare a rileggere il passato prossimo alla luce delle contraddizioni che segnano ancora il nostro presente. L’iniziativa per questo contributo ha trovato sponda nelle parole della guida in carne e ossa presso il Museo Van Gogh, la quale ha sottolineato più volte la natura del nostro percorso, una galleria di highlights previo commento facendomi subito trovare conforto nelle pratiche audiovisive di stampo sportivo.

Andiamo per gradi, proviamo pur sempre a ordinare il testo attraverso un andamento poco mosso in principio, accelerando in corso d’opera. A scanso di equivoci, è impostato un confronto tra il tema della storia su scala calcistica e l’esperienza museale.

Non poteva essere altrimenti, muovevamo da Napoli per raggiungere Amsterdam, città esclusive a modo loro, segnate da una tradizione calcistica da rivivere compiutamente nell’intitolazione degli stadi, dal Diego Armando Maradona a Fuorigrotta alla Johan Cruyff Arena. Come potete immaginare, andata e ritorno sono trascorse in compagnia della penna del fuoriclasse amsterdamiano, un testo particolarmente consigliato, La mia rivoluzione, capace di fare breccia per la semplicità della prosa di contro all’intensità del racconto; passaggi consigliati a tutti, dedicati al gioco in quanto simulacro della vita, senza didascalia alcuna.

Agita questa premessa, non resta che bilanciare il tutto facendo ordine tra i musei visitati, calandoci idealmente nella parte dei giocatori in accordo alle odierne metodologie didattiche così lontane da quell’assetto corporale dell’educazione fermo magari agli anni della CECA.

In questo senso, precisiamo subito quanti (7) e quali saranno i musei presi in considerazione, così da declamare una possibile formazione ideale per quanti vogliano attendere in futuro tale formula:

- Nemo 

- Johan Cruyff Arena 

- Stedelijk 

- Moco 

- Rijks Museum

- Eye commons

- Van Gogh by Alf van Beem

In ordine sono proprio questi, visitati nel giro di tre giorni pianificando per tempo percorso e ingressi. Facendo eco alla premessa del numero 14, convinto assertore di pratiche di gioco a sei, lasciamo fuori da questo resoconto proprio lo stadio per ritrovarlo alla fine del testo quale triplice fischio di chiusura. Parimenti, suggeriamo di considerare anche il dispendio economico derivato dalla visita di tutte queste istituzioni, segnalando altresì l’eccezionalità del Museo di Van Gogh: a meno che non siate tesserati ICOM (salvo altre particolari condizioni), questo museo è pagamento e non rientra in pacchetto alcuno. Tutti gli altri (eccezion fatta per lo stadio) hanno aderito all’ I Amsterdam card, particolarmente conveniente per chi voglia muoversi e visitare la capitale olandese senza dover ogni volta procedere a transazioni di sorta. Non può esserci infatti premessa più adeguata che la memoria del titolo d’ingresso, altra procedura standard che avvicina sensibilmente viaggi e stadi, musei e sale da concerto.

 

1. Alla scoperta di Nemo


wikipedia commons
 

Cercarlo non è poi così difficile, il Nemo, il museo della scienza: manco a farlo apposta, si trova pure sull’acqua così da arginarne la ricerca. Già la struttura racconta qualcosa, propone un’espressione articolata del rapporto interno/esterno da rivivere stavolta nella tensione città/paesaggio. Non trattandosi di sedi storiche, come sarà per altri poli museali, la progettazione resta semmai vicina ai problemi del nostro abitare contemporaneo, trovando rimando nella stratificazione edilizia che la città mostra ancora in espansione, la coesistenza di antico e moderno riscrive sensibilmente il nostro orientamento, tra strade d’altri tempi e costruzioni ancora in corso.

Detto questo, compiaciuti anche dalla scelta cromatica quasi sassolese che brandizza il museo stesso [il nero e il verde, stavolta elettrico], già visitando le pagine del sito, possiamo saggiare della voracità della proposta: tante sono le attività da svolgersi, programmandole in rete o meno, spostandosi tra i cinque piani (quelli visitabili) che fanno la struttura. Un’accoglienza discreta ed efficace prima di un rapido giro di perlustrazione a quelli definiti servizi aggiuntivi, motivi minimi relazionali da poter condividere con il personale, quasi sempre giovane. Un passaggio per i bagni, e via: si sale sulle scale, accolti come si deve, vale a dire nel frastuono delle attività: già percepibile all’ingresso, l’intensità riscontrata si rapporta direttamente al coinvolgimento dei visitatori. Ecco, questo è un museo operativo, particolarmente vicino al profilo dell’esperienza vissuta offrentesi già nel poter toccare le cose, partecipare di cosa succede, aspettarsi un risultato, trovarsene un altro, tornare da capo; sarebbe controproducente per il lettore una descrizione delle attività, per due motivazioni di fondo: la prima, le risorse in rete documentano iconograficamente quanto altrimenti affidato alla sola parola; la seconda, la percezione delle attività svolte resta singolare, dunque pur sempre consigliata.

Ecco, il Nemo museum fa giocare la scienza, in un’atmosfera partecipata come non succede a Napoli, dove altro museo anzi Città della scienza è presente, anch’esso non lontano dal mare ma meno efficace. Non basta fare un museo per fare cultura, sarebbe opportuno affiancare un’offerta, già dai trasporti, efficace. Abbiamo solo da migliorare, in questo senso. Ricordiamo a proposito che ci difendiamo bene, quanto a musei della scienza, anche dalle nostre parti: il Museo delle scienze MUSE di Trento, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, mettiamoci pure il museo di Galileo, che è proprio un istituto di storia della scienza. Ecco, abbiamo messo insieme diverse realtà, anche sul suolo peninsulare, basterebbe visitarle tutte per definire uno stato di partecipazione relativamente diverso, definito proprio dalla capacità del pubblico di lasciarsi attirare da un’offerta di questa specie. Restano ancora le scuole a promuovere questo tipo di attività dalle nostre parti laddove sono in primo luogo le famiglia a viverle ad altre latitudini. Ce lo mettiamo alle spalle dal tetto, ché l’uscita è riservata alla discesa degli scaloni che ritmano le presenze.

 

2. Stedelijk


photo by Quistnix
 

Abbiamo iniziato a orientarci meglio, all’inizio il dedalo di ponti e canali assecondava a tratti l’esplorazione prima di venire drasticamente ridimensionato dall’esercizio della geolocalizzazione tra punto A e punto B: in virtù delle diverse traiettorie disposte dal mezzo di trasporto cui s’è optato, raggiungiamo un luogo che si rivelerà particolarmente partecipe delle nostre giornate, il Museumplein. Si trovano quasi tutti qui riuniti, in lontananza si intravede anche l’Amsterdam-concertgebouw, così da ricreare quello scenario che vuole il palazzetto dello sport non lontano dallo stadio: musei e sale da concerto, urbanisticamente riunite. Quasi come succede a Roma, tra Auditorium Parco e della Musica e Maxxi, solo quasi però. Siamo una sorta di modello mancato, eppure non stentiamo a esercitare tendenze quando confinate al raggio di qualche regione.

Senza incartarci in comparazioni che lasciano il tempo che trovano, arriviamo finalmente allo Stedelijk Museum. Personale sempre accogliente, anagraficamente variegato, fila quasi sempre scorrevole, l’atmosfera cambia sonoramente, al dominio dell’esperienza fa eco il ritrovo nella contemplazione, ci si muove chi singolarmente chi a gruppi di massimo due, tre persone assieme, amici, compagni, audioguide. Sì, qui si usano parecchio, c’è proprio una sorta di ossessione tributata a queste prolusioni auricolari. Decidiamo di evitarne l’ingombro, preferiamo lasciarsi contagiare dal suono dei passi e delle parole talvolta bisbigliate. Piuttosto, fate un salto sul sito, almeno per saggiare la continuità del modello di comunicazione proposto tra grafica digitale e produzione a stampa, un design particolarmente materiale ed essenziale, rimando implicito alla collezione conservata. Il portale in rete propone un’accessibilità insperata, a confronto con quelli di casa nostra: selezionando il testo, è possibile dunque ascoltarlo o tradurlo, internamente alla pagina. Uno strumento prezioso di consultazione che permette altresì di educare l’orecchio all’ascolto. Meno ad effetto l’accessibilità fisica nella misura in cui fortuna volle che, tra i segmenti della collezione permanente, al tempo della nostra visita non fosse disponibile la più succosa delle tre sezioni, dedicata alla produzione d’arte e design a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, comprendente dunque artefatti dovuti al funzionalismo e al De Stijl da un lato, opere di Picasso e Max Ernst dall’altro. La rosa dei tempi è scalata fino ai nostri giorni, Tomorrow is a different day, a partire dagli anni Ottanta scorsi, preceduta da un trentennio, 1950-1980, articolato come Everyday, Someday, and Other Stories, che include altresì opere del compianto Claes Oldenburg.

Non di sola collezione permanente vive il museo, ma resta senza dubbio attendibile per ogni visita futura, facendo di questo zoccolo duro una vera e propria palestra di buone intenzioni. E poi si attraversa quello che capita, a meno che la volontà di una visita non sia dettata da una temporanea. Documentandomi in rete, facendo riferimento alla produzione di contenuti ulteriori alla presentazione fotografica e testuale delle opere, bazzicando insomma sul canale youtube dedicato, ho davvero apprezzato la diffusione di video guidati dalla voce dei curatori, come nel caso specifico dell’intervento di Margriet Schavemaker in occasione di un live lunch tour. Anche in questo caso, ci sarebbe davvero da riflettere su quanto ancora s’abbia da fare, dalle nostre parti, per offrire risorse a un pubblico più ampio, quello della rete, facendo appello a una programmazione misurata che vada oltre la sola reclame.

 

3. Moco Museum


BGCopy

Ci stiamo quasi prendendo gusto, il nostro cammino è quasi iniziato e non siamo nemmeno lontani da un circolo museale, più circoscritto, dall’evidente presa giovanile. Parliamo del Moco Museum, del suo colore rosa imperante di contro al bianco e al nero. A dire il vero, è uno dei musei più reclamizzati della città, si trovano manifesti ovunque: strade, metropolitane, gli stessi mezzi di trasporto offrono parentesi pubblicitarie con volantini adeguati al veicolo. Un museo indipendente, ecco perché, a differenza degli altri, ha bisogno di farsi notare. Il gemello si trova a Barcellona, dove altrimenti? Lì dove Johan aveva trovato riparo dall’esilio forzato, costretto dall’assenza di fiducia intorno a lui, solo lì poteva trovarsi l’altro Moco, proprio nella blaugrana Barcellona che lo stesso visse da calciatore prima, da allenatore più tardi, perché sì, tocca ricordalo, la sua rivoluzione parte dal campo, sia dentro che poco fuori.

Ma torniamo al Moco, molto impegnato a risolvere problemi di mercato quanto i club alla ricerca del nome giusto nei mesi infuocati del calciomercato: addirittura, la prima visita ad una mostra interamente dedicata agli NFT, con artisti strapagati in vita quasi quanto i calciatori. Anche su questo Cruijff, o meglio il suocero, aveva precorso i tempi, dettando condizioni economiche rinnovate per una professionalità andata guadagnando nel tempo sempre più spessore. Ecco, può sembrare troppo mettere in gioco una comparazione tra la collezione di opere di alcuni determinati artisti da un lato e la composizione di una squadra di successo a partire dal blasone dei giocatori, eppure anche in questo campo si misurano sforzi non di poco conto: Banksy, Haring, Hirst, Koons, Kusama, Warhol fanno invidia a qualsiasi giocatore di successo per il sol fatto di aver consegnato il proprio nome all’eternità del mercato, a differenza di quello poco meno disincantato del calcio, fatto di grandi nomi le cui azioni non sono destinate, stavolta, a durare per sempre – se non nel risultato.

Già dal sito, la proposta tende all’interazione tra forme e luci, specie nel gradiente digitale cui si misura un visitatore alle prese con l’uscita dal misurato palazzetto consumato in ogni suo centimetro attraverso un procace rapporto di densità opere/metro quadrato: la visita può assumere allora i tratti della claustrofobia quando partecipata da un numero elevato di utenti, i più impegnati nello scatto ad effetto prendendone parte in prima battuta, basterebbe quantificare gli autoscatti. Resta un po’ di confusione dalle pagine social, altro motivo di riguardo cui destinare una dovuta attenzione: la maggior parte dei contenuti arrivano da Barcellona, sede primaria dell’iniziativa poi allargatasi ai Paesi Bassi. Pur tuttavia, si tratta di una buona esperienza per confrontarsi direttamente con il mercato dell’arte contemporanea, fatto di grandi nomi senza necessaria maturità. 

 

4. Rijksmuseum


wikipedia  Marco Almbauer

Eravamo alla disperata ricerca di una scritta, sono stati i lavori in corso a farla sparire, temporaneamente, dopo 10 anni di onorato servizio. I love Amsterdam. Posizionata all’ingresso frontale del musemplein, particolarmente apprezzato resta il contegno dovuto a urgenti misure di ridefinizione della rete idrica: un traffico pedonale di forte intensità, condizionato dal passeggio pedonale di tante biciclette, rendeva particolarmente faticata la convivenza sulle pedane disposte per l’occasione. Tutto questo accoglieva il turista convinto di ritrovarsi ai piedi di una scritta, una scritta diventata icona, una scritta, tra le altre, che pure dovremo riportare sull’altare della tipografia. Ma la scritta mancava. Solo grazie a un confronto fotografico abbiamo capito dovesse trovarsi lì, ne siamo stati ignari per gran parte della permanenza, non trattandosi di un’opera la cui assenza può esser segnalata, come accade nei musei.

Ecco, tutto questo encomio al valore di una scritta che riassume la città nel segno di un brand a misura di autoscatto fa da prolusione ad una più mossa visita per il museo più grande d’Olanda, attivo dal lontano 1885 come museo in quanto tale.

Parto proprio dal fondo, dalla guida che ho acquistato all’uscita, particolarmente apprezzata per costi (7.50 euri) e gestione delle sale rilegate in formato tascabile: tante illustrazioni, a dissimulare il reale schizzandolo velocemente, si alternano alle riproduzioni delle opere, a documenti fotografici e pagine completamente testuali, con qualche suggerimento utile per didascalizzare il tutto. Evidentemente, un museo come questo è particolarmente impegnativo da stancare l’attenzione di chiunque: tante sale, troppe opere, afflusso costante di visitatori d’ogni ordine e grado, entusiasmo nei gruppi organizzati, disperazione nelle scolaresche accompagnate. Fuori dal contesto museale, sembreremmo davvero perduti, lì dentro, ingabbiati come le opere: per non smarrirsi del tutto, una app sembrerebbe fare al caso nostro, l’app ufficiale del museo, la cui presentazione è disponibile al link, ed è in funzione dal 2018. Uno strumento interattivo a differenza della più o meno statica comunicazione museale, tra agevoli mappe da sfogliare e meno soddisfacenti depliant. Allora la guida può offrirsi di suo particolarmente stimolante, specie dopo, così da ripercorrere quanto percorso in maniera non del tutto consapevole, muovendosi verosimilmente alla scoperta degli spazi e degli allestimenti.

Un po’ di vertigine partecipa dell’attraversamento di questo labirintico scenario museale, la cui sezione più ricca domina per intero il piano secondo, una densità elevata contraddistingue la seconda metà del XVII secolo con Rembrandt e Vermeer sugli scudi. Eppure, al netto di questa galleria onorifica chiusa da The night watch, la cui traduzione italiana, La ronda, meglio definisce il senso di quell’assembramento di ragione civile, entusiasmante restano i piani inferiori, dove si entra in contatto con materiali preziosi quali quelli prodotti tra basso medioevo e rinascimento, la cui singolarità sta proprio nella funzione assolta al tempo: sculture lignee di grande scavo emotivo, strumenti musicali e alte uniformi offerti in diacronia, spunti figurativi su non sempre su tela. La risalita si chiude al 1950 ché l’altra metà del secolo breve è ancora in allestimento, dunque c’è ancora una volta da pazientare, fare i conti con i lavori in corso che tanto s’addicono tanto agli spazi museali quanto ai reparti di un supermercato.

Cosa farcene del confronto su scala calcio? Una chiave di lettura l’avrei pure, giocata sul principio del collezionismo popolare, incrocio tra testo, numeri e ritratti fotografici: l’album delle figurine. E sì, un’operazione d’altri tempi, partita da Modena ed estesa al vecchio continente, da sviluppare oltre il calcio. Emanazione in senso annalistico della storia, il modello proposto andrebbe giocato anche su fronti remoti quali la storia dell’arte e della musica, del cinema e del teatro: un album di figurine, dedicato a interpreti e generi. Dubito possa incontrare il plauso delle case di produzione e distribuzione, eppure può offrirsi quale agile strumento di programmazione comune, insieme agli studenti di indistinto ordine e grado, la composizione di un album da sfogliare e completare, infine custodire.

 

 

5. Eye Film Museum


wikipedia Jvhertum

 A chiusura di un’altra giornata trascorsa a ritmi elevati, propendiamo per quella che sembra essere la scelta migliore, facendoci soggiogare dal fascino di un percorso sul traghetto, di quelli pronti a raccogliere la sfida della mobilità, trattandosi dell’esercizio tra due sponde estese del principale canale cittadino: da un lato, la stazione centrale di Amsterdam, con il suo carico edilizio e la leggerezza del vetro e acciaio ad incorniciare partenze e arrivi del traffico ferroviario, la Torre A’DAM Lookout e l’Eye Film museum dall’altro, unitamente ad estese aree divise tra spazi e verdi e costruzioni in corso.

Prima di entrare al museo, qualche minuto di fervida partecipazione contemplativa dell’orizzonte ci intrattiene al sole, i cui raggi non proprio diretti accarezzano le parti del corpo ancora scoperte - fa ancora abbastanza caldo da ritenerci quasi fortunati. Ci sono diverse generazioni che frequentano gli spazi pubblici prospicienti l’area: passeggini e stuzzichini, skateboard e casse jbl, in quella che sembra una comunissima giornata di fine estate, e la cosa entusiasma non poco. Non si fa fatica a immaginarsi cittadini di questa città.

Così, messi alle spalle questi motivi residenziali, giunge l’ora di attraversare le sale di uno spazio sui generis, dalla presentazione in rete - disponibile al link https://www.eyefilm.nl/en - piuttosto movimentata. È così bello che si può affittare, anche solo qualche spazio, per un evento privato. Avevamo dunque aspettative, di quelle dovute a diversi confronti. Chiaramente, non si può fare a meno di giocare al gioco delle differenze tra le istituzioni museali, specie quando il riferimento si estende alla scala internazionale: le nostre aspettative italiane di partenza s’appellavano a Catania e Torino, spazi ampiamente misurati nel confronto con la storia del cinema, al pari di altri esempi europei quali il/la (?) Deutsche Kinemathek a Berlino e la Cinémathèque française a Parigi. Ci difendiamo bene, anche in campo internazionale, con i due nostrani così lontani tra loro a garantire l’estensione della febbrile attività di produzione cinematografica italiana. Meno emozionante, sotto questo punto di vista, il museo amsterdamiano, la cui funzione effettiva sta proprio nella programmazione cinematografica di classici e nuove proposte, una svolta propriamente curatoriale dovuta all’urgenza di incontrare un pubblico all’interno delle sale...museali. A dirla tutta, è mancata l’occasione per fare un salto, davano una retrospettiva sul cinema italiano, la stagione neorealista, che avrebbe forse meritato più entusiasmo dei cinque minuti passati in sala a film ormai in conclusione: non sfugge, anche alla sede museale, il destino della programmazione. Piuttosto, avremmo assistito con piacere alla proiezione del film I am Zlatan, lasciarci contaminare dal legame tra la città e Ibrahimovic.

  

6. Van Gogh Museum


wikipedia Alf van Beem
 

Siamo quasi ai titoli di coda del nostro percorso, sviluppato su diversi livelli avendone pur sempre uno come destinazione finale, commiato all’area museale intera e il suo carico di esperienze irrinunciabili, alla marcata impostazione museale del nostro trascorso amsterdamiano, il contesto ideale cui ogni visita si relazione all’altra, nella consapevolezza di aggiornare di volta in volta il proprio carattere fino alla fragilità estrema della posizione di Van Gogh di fronte a tutto questo marasma istituzionalizzato. Un sistema dell’arte così ordinato e macchinico animato dalla profonda partecipazione del pubblico motivato ad essere lì, a fare da olio agli ingranaggi, non sempre evidenti, che rendono l’incanto possibile.

Un biglietto da fare assolutamente sul web, programmando l’ingresso per tempo, un codice da scansionare, una visita da approfittare per una durata consona alla propria resistenza. I meccanismi così schedati dell’ingresso si adeguano a una uscita più caotica fino all’ordine degli ultimi ad abbandonare l’edificio. Studiare il pubblico è uno degli obiettivi specifici di ogni museo, non sfugge il nostro, con questionari e altre rilevazioni ai servizi essenziali quali ascensori per disabili e toilette. La nostra scelta, come anticipato all’inizio, ricade su una visita guidata di 50 minuti tra gli highlights della collezione, una scelta a suo modo utile per sentirsi meno smarriti: i visitatori sono tantissimi, sono appena le 9:20 del mattino. Mentre aspettiamo il gruppo radunarsi, un primo giro per il bookshop permette di confrontarsi con la prospettiva merceologica intimamente legata a qualsiasi museo visitato, questo in particolare, per la sovraesposizione non solo dell’autore ma proprio della struttura intorno a lui: certo, sue opere sono visibili altrove, la sua produzione così ampia in vita è andata frammentandosi tra diverse collezioni, ma il fascino di un oggettino da portare a casa memore di questa esperienza particolare fa superare l’imbarazzo del prezzo poco più alto di quanto l’avrei desiderato. Spesso la cosa funziona: non in questo caso, per via di una sorta di immunizzazione preventiva portata avanti nei mercatini dedicati alla vendita dei tulipani: non cambia molto, eppure su alcuni oggetti in particolare come l’impermeabile con quella tale opera stilizzata o la shopper col design accattivante dovete necessariamente rivolgervi al bookshop ché altre soluzioni non fanno per voi.

Dagli autoritratti fino ad altre espressioni dell’intimità domestica e rurale condivisa da Van Gogh, la voce fuoricampo della nostra gentile guida olandese ci invita a prendere coscienza anche delle cornici, voci così assenti dalle riproduzioni delle opere d’arte che pure meriterebbero l’attenzione di chi ci gira intorno: ebbene, per nulla leziose, molto lineari, adeguate ai tratti a più riprese orientali che devono aver spiritualmente condizionato la poetica di questo autore così prorompente nel praticare la vita nelle sue opere - la vita in quanto motivo simbolico, ma anche affettivo, la natura e l’umano nelle molteplici incarnazioni del vissuto e dell’inconscio. Per non risultare oscuramente esclusivo, vi suggerisco al link di seguito [questo qui]le tappe condivise con i miei simpatici compagni di viaggio. In effetti, piuttosto a nostro agio, ragguagliati su minime indicazioni biografiche e di contesto, eravamo invitati a segnalare aspetti a noi oscuri, dovuti alla frequentazione di queste opere a mezzo riproduzione, dunque particolare attenzione è rivolta al colore, ai colori, alle soluzioni formali, alle comparazioni tra lavori prossimi tra loro. Insomma, un modello partecipato, di relazione col visitatore che incoraggia a prendere parola piuttosto che ascoltare soltanto. Una buona idea, considerato anche il costo del servizio (5 euro) ben diverso che il dispositivo accessibile dall’audioguida: a dirla tutta, una cosa buona l’ha fatta suggerendo a Michele Salvemini la produzione di un album come Museica. 

 

7. Johan Cruyff Arena


wikipedia Quistnix

Un fuoriclasse, così lo definirebbe oggi un cronista impegnato sul campo della divulgazione: Van Gogh era un fuoriclasse, una stella non riconosciuta in vita per essere apprezzata in seguito, accresciuta dalla lontananza del suo bagliore; e così, a distanza, ne subiamo l’attrazione un po’ perché non possiamo dubitarne, un altro po’ perché davvero la sua pittura resta un caso singolare, proprio in quanto documento dell’energia spesa nel liberare le forme dai colori. Sempre Michele Salvemini, in arte Caparezza, rende omaggio ad altro campione dell’Olanda che non l’intestatario di questo passaggio conclusivo, Robin Van Persie, nativo di Rotterdam, che mai vestì la casacca dei lancieri imparentati col buon Aiace Telamonio.

Salutiamo questo incauto strettoio musicale per celebrare il sonoro punto d’arrivo di questo campionario dei riferimenti pur sempre spendibili quando si fa di Amsterdam una tappa museale: dunque, non deve mancare lo stadio, un tempio del calcio internazionale, la cui intitolazione al numero 14 si spiega con la fama ultraterrena raggiunta da questo leader indiscusso del calcio moderno. Fortunatamente, molti stadi europei e non solo sono attrezzati per ospitare all’interno delle proprie strutture fiotti di persone giunte da ogni parte pur di camminare nei pressi del rettangolo di gioco: solo questo è vietato, tutto il resto è lasciato a disposizione. Precedentemente partecipe di simile esperienza presso il Camp Nou a Barcellona, non potendo replicare nella stessa città di Napoli tali buone intenzioni, tocca fare appello a stadi europei per conoscere il dietro le quinte del rito calcistico, dunque non poteva mancare il passaggio per lo stadio dedicato al fluoriclasse orange sebbene proprio quel palcoscenico non l’ha mai calcato in divisa da gioco. Si giocava allo Stadion De Meer, dal 1934, fino all’ultima partita, disputata nel 1996, in occasione della vittoria del 26esimo titolo nazionale da parte della squadra di casa. Ci hanno giocato altri, molti altri. Ebbene, come ormai intuito a più riprese, abbiamo optato per guide sul posto, ove disponibili: anche in questo caso, va aggiunta una cifra ulteriore per partecipare in questo senso, insomma non ci facciamo troppi problemi e ci facciamo prendere per le orecchie dal nostro giovane assistente di visita: dopo aver inquadrato geograficamente i partecipanti alla comitiva facendo appello a ipotetici avversari e squadre del cuore, foto di rito all’ingresso del tour: sullo sfondo un green screen da riempire a piacimento con scene già impostate proprio alla fine di questa visita brillante. Siamo oltre la ventina, tutti europei, all’inizio un po’ timorosi gli uni degli altri: cosa ci toccherà mai fare, una visita guidata anche allo stadio? Che emozione!!!

Dunque, radunato il gruppo nell’atrio, fatte le dovute premesse di rito ci portiamo in una sala dove sono ospitate diverse gigantografie dell’eroe nazionale, particolare attenzione è dedicata al numero 14, da sempre il suo numero: ci tocca una presentazione in doppia lingua, inglese per tutti, olandese più tardi, a beneficio anche del piccolo tifoso giunto con il papà per questo tour tanto atteso (svelava fosse il suo compleanno). Tanta la dovizia di particolari rivolta a così importante interprete di una stagione calcistica di profondo rinnovamento, dice bene Cruyff: rivoluzione. Non sono bravo quanto Federico Buffa, anzi vi rimando ad un’anteprima così da condizionare le vostre ricerche future, sappiate solo che c’è da imparare non solo dal gioco di alcuni interpreti, e questo potrebbe essere il caso di Cruyff. Non è compito mio, dunque procedo nel resoconto al fine di indirizzare al meglio quanto anticipato in queste pagine. Ultimato il passaggio per la scala mobile, arriviamo al piano di gioco: non sono tante le tappe di questa visita, sono però molto lunghe, raccolte, giocate su una più o meno sana rivalità calcistica o, almeno, conoscenza sportiva. Mentre la nostra guida ci porta nello spogliatoio degli ospiti, altri visitatori procedono in autonomia nel proprio percorso, visitando gli spazi messi a disposizione dal titolo d’ingresso; più fortunati, entriamo in contatto con le scelte di allestimento messe a punto da parte dei curatori del percorso museale: sappiamo ad esempio che le magliette appese ciascuna a un gancio fanno riferimento a partite effettivamente disputate presso l’impianto sportivo, non si tratta di magliette indossate in campo, bensì esclusivamente commemorative di alcune partite in particolare, non tutte giocate dalla squadra di casa.

È questo il caso della maglietta di Pedrag Mijatović, autore del gol che permise al Real Madrid di conquistare il suo settimo titolo continentale ai danni della Juventus: 20 maggio 1998. Seguono altre magliette, c’è Berkamp, c’è Totti, c’è Ibra con la casacca del Paris. Insomma, sono magliette in sostituzione di un evento particolare: una singolare scelta per l’allestimento dello spogliatoio degli ospiti, di suo molto freddo e scarso nelle sofisticherie. Poco più avanti, attraversato metà corridoio sulle cui parete sono in mostra effigie di giocatori che hanno fatto la storia del club - tra questi ricordiamo il solo caso del finlandese più ben voluto della storia recente, Jari Litmanen – si entra nello spogliatoio del club, dove ognuno può scegliere lo scranno del proprio beniamino (scelgo dunque quello di Lorenzo Lucca, primo giocatore italiano della storia del club). Particolarmente grande e accogliente, con una postazione dovuta all’analisi dell’incontro e altra sala dedicata al relax e all’igiene dei corpi. Ancora una volta, la nostra guida ci offre cifre, statistiche e dettagli legati all’aura del posto in gioco prima di farci vivere un’esperienza particolarmente sui generis quale l’ingresso in campo a suon di pioggia di applausi e cori dagli spalti disabitati: potere di una semplice diffusione, raccontata parimenti a un diversivo narrativo giocato sulla presenza di un gatto ghiotto di topi, motivo di una fessura di passaggio, destinata piuttosto ad ospitare i cavi impegnati nella diretta.

Disposti rigorosamente su due file, entriamo in campo, pronti ad annusare l’erba del prato appena tagliato, osserviamo in silenzio l’arena dove puntualmente tengono banco i destini di svariate migliaia di persone: assordante il silenzio che ci accompagna, consapevoli della bolgia cui la tifoseria biancorossa ha saputo farsi conoscere. Non starò qui a ricordare tutti i campioni, olandesi e non, che hanno trovato spazio nella squadra: sono tanti ed è più bello riportarli in vita vedendoli giocare, anche alla playstation. Piuttosto, prima di lasciarci in balia della stanza dei trofei, siamo messi di fronte alla scelta del logo della squadra, in relazione alla disponibilità della storia di farsi grafica: 11 sono i tratti che definiscono la figura del combattente nella linea stilizzata che fa da logo alla squadra, più severa che la precedente: ci teneva particolarmente la nostra guida a segnalare questo motivo di apparente rottura tra la tifoseria e la società, alla ricerca del logo più autorevole per rappresentare la storia del club. Detto questo, lasciamo l’edificio per portarci in una sala più circoscritta, bella stupenda, piena di cimeli, gagliardetti, loghi, spilli, foto e maglie: particolarmente emozionante questo passaggio prima di scendere le scale e ritrovarsi proprio nella sala dove tutto riacquista un prezzo: lo shop della squadra che, al pari nei bookshop dei musei, chiude questa così piacevole esperienza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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