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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

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Un bronzetto di Leonardo

 

La sintesi di Verrocchio e Pollaiolo

 

 

Leonardo da Vinci, Ercole in Lotta con Acheloo, Frick Museum New York

 

 

Al Frick Museum di New York è conservato un bronzetto delle dimensioni di cm. 44,1 raffigurante Ercole che, ammantato alla spalla sinistra da una leontè, schiaccia sotto la sua possanza la testa di un toro; il bronzetto è unanimemente datato alla fine del secolo XV (più precisamente 1491/92). L’opera non è stata eseguita come di norma con il modello di cera (sistema a cera persa): una diversità decisamente inusuale per la scultura del secolo XV e in effetti per i suoi connotati finali sembra più uno studio per una nuova tecnica scultorea piuttosto che una vera e propria scultura.
L’esame del bronzetto mostra in primis una superficie ruvida come di un oggetto non finito, o meglio che non si aveva nessun interesse a rifinire; le mancanze nelle varie parti dell’opera confermano il disinteresse alla sua completa realizzazione. 
Quanto al soggetto rappresentato, si evidenzia Ercole che schiaccia la testa di un toro con l’arto inferiore sinistro. Ovidio nelle Metamorfosi riporta  la leggenda della lotta tra Ercole e Acheloo: il Dio fluviale Acheloo bramava in sposa Deianira figlia di Eneo Re di Calidone, ambita  anche da Ercole; i due addivennero ad uno scontro;  Acheloo dapprima si trasformò in un enorme serpente; Ercole, che da neonato  aveva ucciso due serpenti, si lasciò andare all’ilarità; Acheloo allora assunse nella lotta le sembianze di un toro poi di un drago e infine di un uomo con testa di toro.

Il bronzetto vorrebbe rievocare la fase in cui Acheloo soccombe come toro ma, essendo un Dio, risorge poi come drago. Acheloo in lotta perse un corno e sconfitto rinunciò a Deianira che andò sposa ad Ercole.
Le Naiadi recuperarono il corno perduto da Acheloo, lo riempirono di fiori e frutta: nacque così la Cornucopia.[1]

 

A sinistra: Acheloo nella ultima fase della lotta con Ercole acquista volto  umano con testa di toro e perde un corno (Palazzo dell’Auditorium .Roma).
A destra: le Naiadi trasformano il corno perduto di Acheloo nella Cornucopia.

Fino ai tempi recenti l’opera è stata attribuita ad Antonio del Pollaiolo che fece di Ercole ripetute rappresentazioni per il significato che l’uomo semidio aveva nella filosofia rinascimentale: l’eroe superando le prove e le difficoltà imposte dalla condizione umana diveniva il simbolo della lotta tra la ratio e l’anima inferiore: Ercole che combatte con Anteo, con l’Idra, con il Leone Nemeo, è la ragione umana che lotta contro gli istinti inferiori e al superamento dell’ultima fatica viene incoronata dalla Virtù.
La famiglia Medici che all’inizio degli anni ’60 commissionò al Pollaiolo Le Fatiche di Ercole per la Sala Grande del Palazzo di via Larga (oggi via Cavour), alla fine di quegli anni sponsorizzò non casualmente la commissione ai Pollaiolo delle Virtù per il  Tribunale della Mercanzia.Ad oggi l’attribuzione del bronzetto al Pollaiolo è scartata, ma si rileva una certa confusione identificativa. In effetti la paternità del Pollaiolo cade già a colpo d’occhio: qualunque fosse la finalità dell’opera (studio o opera definitiva) il bronzo non risponde ai canoni esecutori di Antonio del Pollaiolo (completezza, perfezione, rapidità di esecuzione); le dita di Ercole, a salsicciotto o banana che dir si voglia, confliggono in modo eclatante con la mano di Antonio.
Nella scheda del Museo l’opera viene ora assegnata a Francesco di Giorgio con la datazione di nascita e morte del Martini; altre letture fanno il nome di Gian Francesco Rustici. Le due attribuzioni sono da scartare: l’opera è prettamente fiorentina e non assimilabile al Martini; l’opera è prettamente quattrocentesca e non assimilabile al Rustici, scultore proiettato decisamente verso l’arte cinquecentesca. 
All’esame stilistico del bronzetto è stata opportunamente rilevata una dicotomia tra la parte superiore che presenta stretti legami con l’arte di Andrea del Verrocchio (la serenità del volto, la rotazione  della testa verso l’arto avanzato), e la parte inferiore dove  si rileva la forza propulsiva dell’arte di Antonio del Pollaiolo e il modo di quest’autore di posizionare le sculture su piedistalli con tripode all’antica[2].

    

La discendenza artistica di Leonardo dal Verrocchio e dal Pollaiolo. 
A sinistra. Andrea del Verrocchio, David, Museo Nazionale del Bargello, Firenze.
A destra. Antonio del Pollaiolo, Ercole e Anteo, Museo Nazionale del Bargello, Firenze.
In basso l'Ercole della Frick Collection.

Lestamente si giunge alla meta: chi fu se non Leonardo colui che nella sua arte “fuse” l’insegnamento di Verrocchio con quello di Antonio del Pollaiolo? Si è fatto un gran parlare di Verrocchio come maestro di Leonardo, con il supporto di dati documentali, mentre è rimasto nell’oscurità l’insegnamento del Pollaiolo, anche perché la sua arte pittorica  non è stata ben valutata dalla critica.
All’inizio degli anni ’70 del Quattrocento la Repubblica Fiorentina, per bocca del suo capo, il Gonfaloniere di Giustizia, fece porre alla porta della Catena nel Palazzo della Signoria il David di Verrocchio e ivi commissionò ad Antonio del Pollaiolo il San Giovanni Battista in affresco, oggi perduto; se il San Giovanni Battista, Patrono di Firenze e simbolo della Repubblica Fiorentina veniva commissionato al Pollaiolo era perché questi  a tutti gli effetti rappresentava il pittore di riferimento dei maggiorenti fiorentini. Non aver centrato una tale problematica ha spinto la critica antica e moderna a formulare attribuzioni pittoriche alternative ripetutamente contestate da me in altri articoli della rivista.                                                                Leonardo nel suo intimo considerava il disegno e la scultura come i blocchi di partenza per arrivare, vincitore, alla pittura, l’arte somma in grado di competere addirittura con la filosofia; l’insegnamento di Verrocchio, che tosto abbandonò la pittura per dedicarsi alla scultura (l’arte sua), non poteva essere idoneo alla grande impresa.
Ma se e’ documentato che Ser Piero portò il suo figlio naturale Leonardo alla bottega del Verrocchio per apprendere la scultura, c’è al contrario soltanto un indizio sui legami di discendenza dell’arte pittorica di Leonardo da quella di Antonio del Pollaiolo: la famiglia di Leonardo era imparentata con i Lanfredini, grande estimatori di Pollaiolo al quale commissionarono i Nudi Danzanti di Villa della Gallina; l’indizio  apre le porte alla “prova documentale”: la Ginevra Benci.

 

 

In alto, Leonardo da Vinci, Ginevra Benci, National Gallery of Art, Washington 
In basso, Antonio Benci detto Antonio del Pollaiolo, Ginevra Benci - Retro del dipinto

E’ proprio l’indagine stilistica del ritratto che consente l’avvicinamento di Leonardo ad Antonio. Il dipinto, è stato detto a più riprese, riflette una conoscenza preliminare dell’arte di Van Eyck che Leonardo non poteva conoscere da autodidatta.
Sul dipinto si è argomentato a lungo in altro articolo della rivista[3]; si riportano in questa sede i dati a sostegno di quanto qui si sostiene. E’ stato correttamente rimarcato che il dipinto mostra solidi legami con la pittura fiamminga e specificatamente con Van Eyck, che introdusse una nuova posizione del soggetto, non più di profilo secondo gli schemi classici della numismatica imperiale ma di tre quarti (Cardinale Albergati, Coniugi Arnolfini), una posizione che consentiva una più incisiva descrizione fisica e psicologica del personaggio, analizzato approfonditamente nel suo insieme. Ginevra è, per l’appunto, posizionata di tre quarti ma ben più importanti sono i legami con la pittura fiamminga: eclatante è il contrasto tra la luminosità del volto e la semi-oscurità del grande ginepro alle sue spalle, un contrasto che si ripete tra le stesse componenti del volto di Ginevra, contornato da riccioli su cui risplendono riflessi d’oro di chiara ispirazione fiamminga. L’opera è del giovane Leonardo. Nell’Anonimo Gaddiano, sito al Magliabechiano della Biblioteca Nazionale di Firenze è scritto “(Leonardo) ritrasse in Firenze dal naturale la Ginevra d’Amerigho Benci, la quale tanto bene finì che non il ritratto ma la propria Ginevra pareva”…
Vasari scrive "[Leonardo] ritrasse la Ginevra d'Amerigo Benci cosa bellissima". Che la ritratta del dipinto sia la Ginevra Benci ricordata dal Gaddiano e dal Vasari lo dimostra la presenza dell’enorme ginepro alle sue spalle e non c’è bisogno di troppe conferme documentali per la paternità del ritratto: il paesaggio sullo sfondo è fin troppo eloquente. Il retro del dipinto mostra al contrario una minuziosità pittorica e un substrato filosofico neoplatonico che confliggono con l’arte di Leonardo. Chi introdusse  in Italia l’arte di Van Eyck? Per certo e direi praticamente in esclusiva Antonio del Pollaiolo che diresse dal retro l’impostazione e la finitura fiamminga  del ritratto di Ginevra.
Ma Leonardo non trovava soltanto il pittore in Antonio; la parabola artistica del Pollaiolo si può suddividere in  quattro periodi: negli anni ’50 Antonio fu orafo e incisore, negli anni ’60 orafo incisore e pittore, dagli anni ’70 e fino alla  partenza per Roma orafo, incisore, pittore, scultore e architetto; dopo il trasferimento a Roma  unicamente  scultore e architetto.                                          Torniamo al Bronzetto del Museo Frick; da quanto scritto risulterebbe essere  uno studio per una nuova tecnica scultorea; la datazione dell’opera porta automaticamente alle problematiche che insorsero per la realizzazione del Monumento Equestre di Francesco Sforza. Già nella lettera di presentazione a Ludovico Il Moro del 1482 Leonardo si era proposto per realizzare la grandiosa opera. Leonardo lavorò alcuni anni a uno spettacolare progetto con cavallo rampante che impennandosi  piombava vincente sul nemico; sapeva che la spettacolarità del monumento equestre la dava il cavallo e non il cavaliere; soggiornò a lungo nelle scuderie ducali per riprendere le parti più belle di ogni singolo cavallo e fare poi un collage per il cavallo ideale del monumento. Le problematiche di statica del cavallo rampante al tempo mal risolvibili lo convinsero ad elaborare, verso la fine degli anni ’80, uno nuovo progetto con cavallo al passo, del genere Marco Aurelio.

 

 

L’evoluzione degli studi di Leonardo per monumenti equestri.
Dall'alto in basso:
Gli studi anatomici preliminari (Royal Library).
Studio per un monumento con cavallo rampante (Royal Library).
La soluzione finale con cavallo al passo elaborata prima per il monumento di Francesco Sforza e in seguito per il Monumento Gian Giacomo Trivulzio (Royal Collection).

Leonardo volle compensare la perdita di spettacolarità del cavallo rampante portando la scultura a dimensioni colossali, addirittura 7 metri. Sorsero dei seri problemi tecnici sia per la colata unica e sia anche per il reperimento di un enorme quantitativo di cera; le difficoltà tecniche comportarono un rallentamento dei tempi con cui procedevano i lavori tanto da spingere il Moro a chiedere già nel 1489 a Lorenzo il Magnifico se avesse potuto trovare a Firenze degli esperti fonditori. Il Medici non fu in grado di esaudire la richiesta, per cui Leonardo dovette procedere da solo studiando soluzioni di fusione idonee alla grandiosa impresa.
Nel 1493, in occasione delle nozze di Bianca Sforza, nipote del Moro, Leonardo riuscì a presentare il modello in creta del cavallo nelle dimensioni reali e l’opera venne molto apprezzata. Il grande quantitativo di bronzo messo insieme  per la fusione fu malauguratamente dirottato nel 1494 a Ferrara ad Ercole d’Este per realizzare cannoni della Lega Italica contro l’invasore Carlo VIII. Il modello del cavallo fu poi distrutto dai soldati francesi nella nuova discesa in Italia del 1499 ordinata da Luigi XII.
In questo contesto si inserisce il bronzetto del Museo Frick che, a parere dello scrivente, rappresenta uno studio per una tecnica alternativa, ma è anche molto di più.  Si è detto che le dita a salsicciotto, la superficie ruvida del bronzo, le mancanze di parti del corpo e della leontè confliggono con la realizzazione di un opera artisticamente fine a se stessa, ma d’altra parte l’aver posizionato Ercole su un tripode all’antica, nei modi del Pollaiolo, esclude che si trattasse di una mera prova tecnica. Si è detto che l’autore della statuetta è da riconoscere in Leonardo perché l’opera riflette la sintesi dell’arte di Verrocchio e Pollaiolo, ma non si trattava tanto di una derivazione “genetica” dell’arte di Leonardo quanto della determinata volontà del Vinci di riunire nella statuetta gli insegnamenti dei suoi due maestri.
Leonardo con il bronzetto voleva materializzare le sue aspirazioni: elaborare un nuovo sistema per realizzare tecnicamente il grandioso monumento equestre che avrebbe dovuto rappresentare, sulla falsariga del bronzetto, la ineguagliabile sintesi dell’arte dei due eccelsi scultori del Quattrocento suoi maestri: Verrocchio e Pollaiolo.
Si è trovato il movente dell’aver realizzato agli inizi degli anni ’90 del Quattrocento una scultura nello stile di inizio anni ’70: era il periodo d’oro dei due scultori che sarebbe rivissuto congiuntamente ed eternamente nel Monumento Equestre di Francesco Sforza. Leonardo è l’Ercole dei tempi moderni, un Ercole completamente umano che ha dovuto combattere, non sempre vittorioso, contro un destino ripetutamente avverso: gli eventi storici gli cancellarono i due grandi progetti per monumenti equestri, per un gran temporale si spalancò un finestrone del Palazzo della Signoria e andò distrutto il Cartone per la Battaglia di Anghiari di fronte al quale Raffaello aveva avuto un mancamento; nonostante tutto la grandezza dell’uomo rimane intatta.

 

Note al testo

[1] Esistono varie versioni sull’origine della Cornucopia; una di esse narra che Giove per sopravvivere a Saturno fu allattato dalla capra Almantea. Divenuto re degli Dei Giove volle sdebitarsi con Almantea, le staccò un corno e lo fece diventare una sorta di scrigno da cui fuoriuscivano tutti gli oggetti dei desideri.
[2] Alison Wright;The Pollaiuolo Brothers. Yale University Press PP.345-349.
[3] M.Giontella; Ginevra Benci. In Leonardo e Antonio. PP. 4-16 Fogli e Parole d’arte. Leonardo

 

 

 

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