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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Testuali parole

La solitudine. Bassi ossessivi e controcanti

L'Avaro

Luce e voce. Tenebre in cui la voce albeggia i deliri della ragione. Comincia in monodia, e si duplica in controcanti, per selezionate vibrazioni gestuali, controscene, sulla base di rarefatte campiture spaziali. Mi pare questa la cifra formale all’interno della quale il Teatro delle Albe di Marco Martinelli colloca il suo ‘politttttico’, plurifocale messaggio tragicomico, grottesco, dolente, di politica denuncia, il cui senso profondo si può riassumere col celeberrimo verso baudelairiano ‘mon hypocrite lécteur, mon frère’.

Si tratta in questo caso di due spettacoli - ‘L’avaro’ (fedele partitura sul testo di Molière) e ‘Rumore di acque’ (sullo splendido testo del regista stesso) - passati al Valle, a Roma, ai primi di dicembre, dopo l’esordio estivo al Ravenna festival. La trama dell’avaro è nota. Di superficie commedia buffa, a lieto fine, con i meccanismi dell’arte, equivoci, agnizioni, esagerazioni sui ‘tipi’. Il vecchio stolido che reprime-comprime i figli con progetti di matrimoni d’interesse, e vuole per sé la bella giovane amata dal figlio. Un factotum innamorato della figlia e doppiogiochista. Serva e cuoco-cocchiere opportunisti e invidiosi. E poi il crescere, sforare – già molieriani – oltre la tela del genere, verso il giganteggiare nevrotico dell’avaro, che minimizza sullo sfondo, al di là del lieto fine appiccicaticcio, tutto il contorno. Un avaro che rischia addirittura di diventare a sua insaputa prestatore ad usura del figlio, e precipita poi a persecutore giudiziario e disperata vittima sotto ricatto nel momento in cui – ad opera di Freccia, cameriere del figlio – gli viene sottratta la cassetta dei soldi, sepolta in giardino. Una cassetta che incarna al tempo stesso il culmine della macchina comica, ed il cuore sanguinante della nevrosi tragica. Intorno ad essa ruota simbolicamente tutto, come attorno al ‘forziere del cuore’ del capitano della nave dei morti in ‘Pirati dei Caraibi’.

La sua perdita è morte e agonia, fonda luttuosa disperazione, agnizione della propria solitudine dietro la maschera della forza, della tracotanza perfida, volgare, ingenua. Ed il capolavoro vocale della protagonista – Ermanna Montanari - ha qui il suo massimo, l’apice della complessità e della densità. Sprofonda.

La scena d’apertura è quasi vuota. Un monitor mostra il pubblico che entra, e come rileva Ferraris – se lo si accoppia al finale con il regista-personaggio che arriva dalla platea – questo può essere il segno che ciò che è in scena siamo noi, che baudelairianamente non ce ne possiamo tirare fuori. Ma la scena si anima della prima presenza col figlio Cleante che, sgargiante e animoso speranzoso amante, si specchia in un gigantesco e astratto specchio nero.

Se sommiamo questo al plastico della casetta dell’avaro che compare ad un certo momento nel fondo scena, alla bella scena dove ( in un primo climax riassuntivo del tourbillon di conflitti ) tutti i protagonisti, in luce livida, danzano immobili ed espressionistici il proprio delirio di gesti, con l’avaro, nero, in posizione di capo danza, ed infine alla presenza dominante del microfono, materializzazione fallica (come giustamente nota la Meldolesi) della voce-potere, masturbatoria, dell’avaro - allora vediamo che non solo ciò serve a squarciare brechtianamente ed espressionisticamente la tela tradizionale della commedia, e la separazione scena-pubblico. Si materializza qualcosa di psicanaliticamente più inquietante, il fondo oscuro del concetto del doppio, sacralizzato da Artaud, come presenza, e tematizzato dalla psicanalisi come ritorno del rimosso. Siamo allora forse voyeurs di qualcosa di osceno (di fuori scena), che ci riguarda, e irrompe: siamo nel teatro delle nostre proiezioni. Sono parti di noi in lotta che si materializzano in un campo psichico, onirico. E non a caso, in un momento apparentemente comico, quando l’avaro tenta di limitare lo spreco della cena dovuta agli invitati, la sua presenza diventa sola voce, una voce-feticcio, al microfono, in assenza del protagonista.

L’avaro – prosecuzione in qualche modo, per le ‘Albe’, del lavoro sull’Ubu di Jarry – è certo anche una incarnazione grottesca, farsesca, caricaturale, delle tare e dei labirinti mentali del potere, e già allora, per Ubu, si era rilevata la presenza, in filigrana, del fantasma del Macbeth shakespeariano. Grottesco e tragedia. Due facce del ‘lato oscuro’ della forza. E sicuramente qui, dietro il tenue velo del comico, il lato oscuro delle pulsioni è ben evidente, nel suo versante inconsapevole e persecutorio. L’avaro è malattia. E del resto l’intuizione di una psicopatologia dei ‘tipi’ era già ben presente in Molière: basti pensare al malato immaginario.

L’avaro come personalità narcisistica (nel senso clinico-patologico, kohutiano, del termine ), incapace di contemplare l’altro se non come oggetto persecutorio, da tenere a bada con la manipolazione.

Ed il denaro, la cassetta-casetta cuore-pulsante del delirio, il denaro-feci, rimosso e sepolto.

Le feci-fallo materno-paterno da controllare e con cui controllare il mondo.

L'AvaroIl cuore della ferita narcisistica dell’abbandono, e il centro dell’invidia vendicativa e distruttiva kleiniana (radice malata del potere), ma anche il sigillo della vergogna di non esistere che per se stessi: la falla esistenziale da custodire, in un Io-pelle segregato.

Il denaro come sessualità perversa, deviata, compensatoria, compulsiva (ben vi allude la Meldolesi).

Potere e ferita del potere come falso delirio di onnipotenza, debole proprio nella sua inconsapevolezza. Non a caso nel Macbeth chi resiste, chi ha dei residui di moralità, è lui. E’ Lady Macbeth a cedere totalmente all’acting out inconscio della rabbia divoratrice, e altrettanto velocemente a soccombere, totalmente agita da forze altre.

Così qui l’avaro - certo anche per utilità di casting, data la presenza fuoriclasse della Montanari – qui è psichicamente ermafrodito (altra intuizione 6-7centesca che sia avvia a regola nel travestitismo che rovescia l’interdetto elisabettiano alla donna in scena): padre castratore e madre dall’occhio di ghiaccio; bimbo onnipotente ed infantilmente onnivoro, e femmina invidiosa della mancanza archetipica.

Questa ambivalenza emerge nei magistrali spartiti della vocalità, che la Montanari giostra tra gutturalità rasposa e baritonale e sovracuti sussurati di testa e naso ( ed è inutile dire quanto ciò sia lodevole nel proseguire un terreno poco calcato dall’avanguardia gestuale terzoteatrista, e qui su una linea più che grotowskiana, beniana, per il registro di straniamento, sdoppiamento, assenza).

Una voce serpe – strisciante, gattesca – assenza e presenza, dilatata psichicamente dal microfono e da pose di burattinesca stupita immobilità della donna in nero ( e anche qui sovviene il Carmelo Bene per l’appunto di un celeberrimo Macbeth, sia per il microfono, che per lo sdoppiamento e l’immobilità stranianti, in playback).

Lei, lo sciamano che campeggia in nero – aliena – annichilendo anche per il critico l’occhio sugli altri attori, respinti nel contorno di una pur valida recitazione tradizionale, da commedia dell’arte, nella voce e nei gesti, e solo ogni tanto salvati da trucchi di gestualità astratta e controcampi.

Una ambivalenza che culmina in due momenti antitetici e complementari di voce al buio, dove il nero tutto invade, come metafora del campo psichico.

A metà percorso, nella ‘notte del crimine’, quando Arpagone rischia inconsapevolmente di divorare il figlio, e dunque se stesso, nel delirio dell’usura.

E poco prima del falso abbaglio del lieto fine - risceso al comico – quando la sua voce, totalmente mentalizzata, declina ( con toni dolenti di fragile assenza ) la ferita dell’ipotesi di disintegrazione dell’identità, il lutto e la solitudine nel toccare l’abisso di vuoto che si apre con la scomparsa della cassetta, con il suo ‘cuore rubato’ messo a nudo.

Un avaro improvvisamente inerme! Un avaro tragico, inquietante, che ci penetra e non ci molla più.

L'Avaro


Pochi giorni dopo - assistendo a ‘Rumore di acque’, seconda parte di un trittico dedicato a Mazara del Vallo e alla questione dei migranti (laboratorio che, come altri celebri di Martinelli, in Africa, a Scampia, ha visto il regista lavorare, nel ‘Prologo’, con 60 ragazzi del luogo ) - le linee guida dell’avaro molieriano sembrano confermarsi e concentrarsi. Il principio monodico si materializza nella scelta di un monologo affidato ad un solo attore, il bravissimo Alessandro Renda, ed anche qui vediamo dipanarsi un tragico grottesco ( più chiaramente politico ) che ha come bersaglio la logica deformante del potere, ed il percorso di crisi e ambivalenza sofferta di chi lo incarna.

Più risolta però, diciamolo subito, risulta la dialettica con gli altri, ridotti al silenzio detonante delle vittime ( i morti – ombre – spettri del monologo ), e riemergenti come ‘coscienza infelice ed incubo’ nell’ossessione logica del protagonista, e nel controcanto delle strazianti melopee mediterranee dei fratelli Mancuso, col loro canto ‘lungo’ e dolente, etnico, lamentatio funebre scandita dai vibrati e dallo scampanìo rarefatti di strumenti ‘altri’.

Come dice bene il regista, nell’intervista con Fogli, ‘voci animalesche, evocazioni del capro espiatorio’. Il capro espiatorio delle nostre coscienze ‘ripulite’, meccanismo difensivo elementare ? O il capro espiatorio da offrire al regno del male, sacrificio alla divinità sanguinaria che presiede la logica del mondo, per salvarci ?

Un Cristo rifatto origine barbarica, carne sbranata dai pesci del ‘mare-vita-violenza’ del potere ottuso ? Come vedremo, anche in questo caso, altro da noi e pienamente noi ?

Anche qui, e ancor più, la scena si pone come un ‘vuoto’ gravido, in cui far emergere le ‘proiezioni’. E l’inizio è silenzio e presenza. Nero nel nero del buio in scena, immobile, il protagonista galleggia nel nulla di un altrove, presenza dimidiata, senza gambe, senza radice nella terra, vestito di nero, con occhiali neri da sole che danno alla sua faccia, al buio, l’aspetto da Arlecchino-demone (servitor di due padroni ), e nel contempo le stigmate, che poi ben vedremo, della cecità da un lato, e del burino coatto, ricco turista, o del trucido caporale di anime.

L’effetto di galleggiamento è dato da una luce frontale abbagliante, sottostante la pedana su cui è in piedi, cosicchè la luce va solo a illuminare dal busto in su, e a stento il volto. Il buio totale poi, oltre a rendere galleggiante il volto, fungerà da evidenziatore delle mani, in guanti bianchi (innocenza, doppia coscienza ? ), sdoppiamento e contraddizione espressionisticamente gesticolante del violento ringhio della voce, quando improvvisamente emergerà, per dilagare urlata ossessiva e in arrestata, come ringhio-vomito interiore. Una voce che come nella Montanari sforza tutto sui toni di gola, rasposa e bassa, ma che - se pur svaria meno di quella di lei in sfumature di registri - è una conquista pe rformativa eccezionale proprio per la sua resistenza monocorde nel ruggire di gola, laddove qualunque altro attore si romperebbe le corde vocali per la violenza dell’urto. E del resto un trucco di scena – il bere da una falsa bottiglia di birra (in realtà acqua), quando l’alcool serve a mitigare l’albeggiare delle contraddizioni e il duro lavoro - è il minimo per permettere alla performance vocale di durare su tale registro ‘gridato in bassa gola’.

La Montanari infatti usa questo difficile registro di gola, ma con toni carezzati, striscianti, meno ‘pericolosi’ per lo strumento. Tutto ciò del resto non è casuale. La voce di Renda è carta vetrata, è schegge di vetro, ferisce ed è sempre a rischio di infrangersi. E’ una voce di non signoria, di protesta e contraddizione, di ferita, diversamente da quella sfuggente e stregonesca, misteriose e perfidamente infantile dell’avaro-Montanari. Il potere dell’avaro è sì un potere posseduto da se stesso - e non dunque pienamente signore di sé - ma è ‘il potere’. Qui il protagonista, il ‘generale’, non è che un ingranaggio (‘just a brick in the wall’ ), stritolatore stritolato da un lavoro inutile ed alienante. E’ un generale sgeneralato, generale di nessun esercito, o di un esercito di ombre fattesi numero anonimo nella mattanza, burocrazia persecutoria di una shoah anonima e non dichiarantesi, in assenza di volto del potere disponente.

Signore di un’isola che non c’è, terminale catalogatorio dei migranti africani morti nel tentativo di traversata del Mediterraneo, servitore degli inferi senza contropartita di gloria, il generale potrebbe apparire, nel suo esordio brontolatorio, un Leporello un po’ più torvo (‘notte e girono faticar… ‘), che prova ad identificarsi coi signori del male che si godono i frutti dell’affare. Inveisce contro il disordine dei numeri - numeri illeggibili perché anonima è la morte in un mare che i morti divora e spolpa - ma anche contro la muta pretesa dei morti di lamentare il loro diRumore di acqueritto alla fuga verso la felicità. E’ gente stupida ! Che faceva finta di non conoscere il proprio destino… Imbroglioni nei conti del mondo !

Vorrebbe essere dalla parte del padrone, ma già nell’irritazione per i numeri illeggibili si sente montare una rabbia che solo per un po’ potrà trovare il proprio capro espiatorio nella stupidità delle vittime, che lo irritano con la loro disordinata pretesa al dolore. Man mano che il lavoro va avanti infatti cresce la pulsione al racconto-identità. Tentando di dar senso ai numeri ( sempre più alti – segno di una gruppalità terrifica del macello che sfiora la violenza del quadro della Abramovic seduta sul monte di ossa spolpate ), il generale si lascia sempre più invadere infatti dalle storie dei dispersi. Chi è stato spolpato da un’elica. Chi è approdato alla riva di una servitù ‘cum stupro’ presso un protervo-innocente ottantenne compratore. Chi svanisce nel mare, tentando un impossibile ritorno a nuoto. Ma tutti bambini o ragazzi, come se solo questi potessero darci pienamente l’idea dell’orco e dell’innocenza.

A questo punto l’Arlecchino servitore di due padroni, da scherano dell’inferno slitta sempre più verso l’essere servitore dell’angoscia prima, poi della rabbia quasi ribelle e della pietas. Il finale tuttavia non è nel lutto. Anche qui c’è un rientro. Si ripiomba nei numeri. Solo che ora la protesta non è più verso le ombre indisciplinate, ma verso i padroni, in dissolvenza ambigua su un ossessivo e ripetuto, martellante, ‘Non ci leggo, non ci leggo… !’, quasi a voler denegare la temporanea piaga della coscienza, a volersi rimettere gli occhiali da sole della cecità del servo, dell’arroganza dello scherano-mediatore. Del Caronte bifolco. Gli occhiali di una solitudine che non può più essere totalmente inconsapevole, di una solitudine angosciata e irritata.

Va detto infatti che nel ‘secondo tempo virtuale’ (non vi è infatti cesura), gli occhiali il generale se li era tolti, seguendo anche fisicamente un processo di umanizzazione che, abolendo il buio, gli restituisce la figura intera, con movimenti e contorsioni, prima che le tenebre lo divorino di nuovo, incarnandosi nella gigantografia persecutoria dei numeri su uno schermo. Numeri squali, che lo divorano.

Del resto il leit motiv, l’immagine sovraordinata, è la disseminazione divoratoria e anonima del potere-mare, del potere senza volto, che di sé non risponde, ma come la natura leopardiana risponde mangiando. Una natura-potere torva, che siamo tutti noi, pesci tanto ingrassati dal nostro partecipare al pasto senza colpa né coscienza, contenti della nostra pinguedine, da essere esseri senza collo, solo teste-pancia, teste-bocca. E’ questa l’immagine climax di un testo bellissimo per ritmo, intensità, gradazione, un testo che è già tutto la regia. Un’immagine espressionisticamente lirica nella sua selvaggia bestialità e forza invettiva, e che si sdipana per ben cinque pagine, prima di dar luogo al testacoda. Vale la pena di riportarne qualche stralcio.

“…certo che i pesci son delinquenti / non guardano in faccia a nessuno / Maledetti squali / maledetti pescecani… / e tonni / e leviatani… / …maledetti pesci spada / e martello / e tigre / e coltello / maledetti pesci lupo / iene dalla bocca larga / maledetti voi / sciacalli e sciacalletti degli abissi / voi / belve del mare / mandrie così assatanate / che non fate differenza /… /… a pacchi ve li trangugiate /… / quei corpicini senza più luce /… / che impedite a me / di fare il mio lavoro / di dargli un nome / … / A ben guardarvi / non avete testa / … / come vi devo parlare / squali ? / … / perché proviate un po’ di pena / … / Squali / Porci del mare ! / Che tutto divorate / sfigurate / e non vi basta mai ! ” -

E tra la sordità disperante di questi squali-noi, e l’angosciato ‘Non ci leggo !’ del finale, s’annega partecipe e intontito lo spettatore-pubblico-generale, in un generale scrosciare di applausi. Ma dopo il silenzio tipico da pugno nello stomaco che è il vero viatico di chi raggiunge il segno.

 

Schede e locandine

L’avaro di Molière, del Teatro delle Albe.
Traduzione: Cesare Garboli. Ideazione: Marco Martinelli, Ermanna Montanari. Regia: Marco Martinelli.
In scena : Loredana Antonelli, Alessandro Argnani, Luigi Dadina, Laura Dondoli, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Alice Protto, Massimiliano Rassu, Laura Redaelli.
Spazio: Edoardo Sanchi. Luci: Francesco Catacchio e Enrico Isola.
Musiche originali: Davide Sacco.
Costumi: Paola Giorgi. Direzione tecnica: Enrico Isola. Assistente spazio: Gregorio Zurla. Assistenti ai costumi: Giada Masi e Maria Adele Porro. Realizzazione spazio: Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Danilo Maniscalco, Nicola Fagnani (Opera Ovunque), Gregorio Zurla. Realizzazione costumi: Laura Graziani Alta Moda, A.N.G.E.L.O.

Cartellone

dal 24 novembre 2010 al 5 dicembre 2010 - Teatro Valle – Roma

dal 9 dicembre 2010 al 12 dicembre 2010 - Teatro Fabbricone - Prato

dal 21 gennaio 2011 al 30 gennaio 2011 (Pausa 24 e 27) - Teatro Elfo Puccini - Milano

dal 3 febbraio 2011 al 6 febbraio 2011 - Teatro Comunale - Ferrara

dal 16 febbraio 2011 al 19 febbraio 2011 - Teatro della Tosse - Genova

dal 24 febbraio 2011 al 27 febbraio 2011 - Teatro Alfieri - Cagliari


Rumore di acque, del Teatro delle Albe. Ideazione e regia: Marco Martinelli. In scena : Alessandro Renda. Musiche originali eseguite dal vivo : Fratelli Mancuso. Spazio, luci, costumi : Ermanna Montanari, Enrico Isola. Realizzazione costumi : Laura Graziani Alta Moda, A.N.G.E.L.O. Direzione tecnica: Enrico Isola. Tecnico del suono : Andrea Villich.

Cartellone

14 gennaio 2011 - Teatro Clitunno - Trevi (Pg)

18 marzo 2011 - Teatro Koreja - Lecce

dal 20 marzo 2011 al 21 marzo 2011 - luogo da definire - Lamezia Terme (Cz)

20 maggio 2011 - Teatro della Società - Lecco

 


Per informazioni : Teatro delle Albe, Ravenna Teatro – via di Roma 39 – 48121 Ravenna, Italia. Tel +39 0544 36239 – fax + 39 0544 33303

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. - www.teatrodellealbe.com

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