Testuali parole

Conosci te stesso, Goya

  • Stampa

 

Fig. 1

È il 1792 quando in Francisco Goya (1746-1828) nasce l’esigenza di raccontare qualcosa, non più (soltanto) legato al suo lavoro di cartonista e ritrattista (adulatorio), ma che abbia a che fare con il mondo che lo stringe, che lo assorda – fuori e dentro. Perde infatti l’udito a causa di una malattia che lo riduce in fin di vita. Chi parla di aortite, chi di ipertensione arteriale, chi addirittura di schizofrenia. Sopravvivrà, beethovenianamente, ma niente sarà più come prima. Niente più tertulias, niente più discussioni e litigate tra amici. Rimane solo con se stesso, murato tra visioni interiori e silenziose voci prima mai sentite. Nella sua crisi esistenziale Goya impara così a conoscere un altro sé, quello che emerge dalle sue opere, un Goya “scuro”, inquieto, provocatore, stravagante, emancipato dai canoni pittorici dell’epoca (e per questo precursore dell’arte moderna).

 “Conosci te stesso” è la frase iscritta sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi e ammonisce Socrate, ovvero “impara a conoscerti per accettare i tuoi limiti”. Nadie se conoce (nessuno si conosce) scrive invece in calce il pittore spagnolo a uno dei suoi Caprichos (capricci), il numero 6, incisioni ad acquaforte pubblicate nel 1799. Così, in un manoscritto autografo conservato al museo del Prado di Madrid, Goya spiega il significato del suo disegno: «El mundo es una máscara, el rostro, el traje y la voz todo es fingido; todos quieren aparentar lo que no son, todos se engañan y nadie se conoce» («Il mondo è una maschera, il volto, il vestito e la voce è tutto finto; tutti vogliono sembrare ciò che non sono, tutti si ingannano e nessuno si conosce»). Ecco il racconto: l’ipocrisia connaturata all’uomo, ma anche e soprattutto l’ignoranza, la vanità, la miseria. Gli uomini non si guardano, millantano, scimmiottano, e alla fine non si conoscono, né tra di loro né tantomeno allo specchio. Di qui la donna ingobbita che cerca di decifrare il volto mascherato di una fanciulla; ad ergersi dietro di loro presenze inquietanti, male coscienze. 

Tuttavia Goya è stato fedele a Socrate. Costretto ad immergersi in se stesso, ha trovato il suo limite (e quello dell’umanità tutta): l’impossibilità di conoscersi. Ecco a cosa è servito questo suo viaggio interiore, assordante. E ora lo racconta nel modo a lui più congeniale, rappresentandolo figurativamente. Chi è Goya? si sarà chiesto Francisco mentre temeva di dover lasciare per sempre questo mondo. Il pittore del re? Colui che attraverso premurose pennellate deve far felice la corte di Spagna? Sì. Oppure no? Oppure è solo quello che gli altri vogliono che sia? Goya, rinchiuso in una solitudine forzata fa uscire il suo lato oscuro, dà forma all’inconscio, e scopre altri sé. Frammenti di un io complessissimo fissati su un foglio, e un’unica certezza: l’impossibilità di ricomporli in un quadro chiaro e coerente. La miseria dell’umanità è anche la sua, Goya non si esime dalla critica, che diventa così autocritica. Ma conosce se stesso perché consapevole di non poter arrivare a conoscersi – cifra della condizione umana. Anche qui è fedele a Socrate: sa di non sapere (e di non poter sapere).

Fig. 2

I limiti – nel senso di limitatezze consustanziali – dell’uomo, Goya li riconosce registrando con l’attività delle sue mani l’assurdo (della guerra, per esempio), il vizio, l’ignoranza, la superstizione che dominano la corte di Carlo IV e il popolo spagnolo. Ed è attraverso un altro capriccio, il più celebre, il numero 43, che egli può raccontare il pericolo che si cela dietro all’esasperazione di un’unica parte di questo nostro io talmente complesso, errore in cui si cade quando, appunto, non si sanno riconoscere i propri limiti. Recita il titolo del capriccio: El sueño de la razón produce monstruos (il sonno della ragione genera mostri) ovvero, come scrive lo stesso Goya «La fantasía abandonada de la razón produce monstruos imposibles: unida con ella es madre de las artes y origen de las maravillas («La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie» – da un manoscritto conservato al museo del Prado). L’illuminista Goya, amico di Jovellanos, uno dei pochi esponenti della Ilustración spagnola, mostra così, con un uomo dormiente (che “non usa la ragione”), il male – di cui i mostri sono metafora – provocato dall’irrazionalità con cui spesso agiscono gli uomini. Al contempo però, lo stesso Goya, questa volta in veste di critico dell’Illuminismo – ha visto coi suoi occhi gli anni del Terrore scaturiti dalla Rivoluzione francese scoppiata dieci anni prima – mostra come anche il sogno, e non soltanto il sonno, della ragione possa produrre mostri. Infatti, sonno e sogno in spagnolo si dicono allo stesso modo – sueño. 

Fig. 3

Il male è dietro al limite, in agguato. Il male è il limite, non riconosciuto e quindi esasperato. Conoscere se stessi è evitare che ciò che non possiamo controllare prenda il sopravvento su tutto l’intero nostro essere, è perdere le redini dell’equilibrio – che non è figlio unicamente della ragione, ma di quel quadro complesso che è la totalità della persona. Se la ragione fagocita il resto, o viceversa, il risultato è storicamente provato, e doloroso.

Goya dimostra così un profondo bisogno di conoscenza, prima di tutto, del suo animo, specchio dell’animo umano, conseguenza di una crisi personale (la malattia) e storica (la Rivoluzione francese e soprattutto la guerra d’indipendenza spagnola), un bisogno parzialmente appagato dalla sua produzione artistica, una lanterna costantemente puntata sui cuori degli uomini.

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1, Autoritratto, 1815, Museo del Prado, Madrid, olio su tela, 46 x 35 cm.

Fig. 2, Nadie se conoce, 1799, Real Calcografía , Madrid, acquaforte e acquatinta, 210 x 148 mm.

Fig. 3, El sueño de la razón produce monstruos, 1799, Real Calcografía, Madrid, acquafore e acquatinta, 207 x 145 mm.