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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Testuali parole

La New York fotografata da Berenice Abbott e quella dipinta da Edward Hopper

 

Un confronto tra due importanti esponenti di arti diverse è compito piuttosto complesso, il che appare evidente sol che si ponga mente all’inevitabile distanza di obiettivi e sensibilità, quantunque si tratti qui di personaggi attivi negli stessi anni e nel medesimo luogo e che si sono interessati di soggetti simili1.

Nel 1938, la rivista di immagini Life pubblica alcune fotografie scattate da Berenice Abbott (Springfield, OH 1898 – Monson, ME 1991), facenti parte di un lavoro di documentazione intitolato “Changing New York”. In una foto in particolare, 5th Avenue, nos. 4,6,82, la rivista trova una somiglianza stilistica con i dipinti di Edward Hopper (Nyack, NY 1882 – New York, NY 1967). Al paragone, la Abbott risponde che lei aveva “cominciato a fare questo tipo di cose prima del pittore” e che “la fotografia era il mezzo migliore per farle”3.

Le intenzioni con cui i due ritraggono la stessa città sono, in effetti, differenti. Mossa da interessi documentaristici, la Abbott - che raccoglie, come vedremo, l’eredità di Eugène Atget (1857 - 1927)4 - intende fornirci una mappa del carattere della città, perciò le sue fotografie sono da leggere in un insieme piuttosto che come singoli capolavori. Il suo è infatti un lavoro di documentazione, intitolato Changing New York, sviluppato dal 1935 al 19395 per il Federal Art Project (ben nota è invero la risistematizzazione del tessuto urbano essendo sindaco Fiorello La Guardia) e che produrrà circa un migliaio di fotografie6.

Edward Hopper, invece, senza un piano dichiarato, ritrae quello che più lo affascina, trascurando vaste parti della città (non ritrarrà mai, ad esempio, i grattacieli). Hopper non è estraneo al mondo della fotografia. Durante la sua permanenza a Parigi sviluppa un breve interesse per quest’arte e un’ammirazione, che lo accomuna alla Abbott, proprio per il fotografo Eugène Atget, che si dedicava, già sul finire dell’Ottocento, alla documentazione dei vecchi quartieri parigini - le Vieux Paris - in via d’estinzione, della loro autentica realtà (Hopper ritrae gli stessi soggetti di alcune fotografie di Atget e, come il fotografo francese, cerca di comunicare sentimenti di malinconia e solitudine, facendo però un uso del tutto personale della prospettiva, che risulta come “appiattita”); sempre a Parigi, ammira gli impressionisti e conosce i Nabis, preferendo, tra tutti loro, Félix Vallotton7. Hopper è peraltro influenzato anche dall’astrazione e dal morbido pittorialismo delle fotografie di Paul Strand, in particolare dalla scena di strada di Wall Street, New York del 19158. André Breton lo accosterà infine a Giorgio De Chirico9, cogliendo facilmente nelle sue opere una metafisica diramata in direzione americana. Tutto il resto appartiene solo a Hopper, alla sua capacità di giudizio e al suo intuito creativo.

Non susciterà dunque alcuna sorpresa che nel presente contributo ci si proponga di riunire il celebre pittore e la famosa fotografa, di sedici anni più giovane, enucleando quattro temi comuni ai loro lavori (la facciata, la vetrina, l’infrastruttura, l’elemento umano) e analizzando per ciascuno di essi un’opera particolarmente significativa. Al di là delle somiglianze dei due artisti nell’attrazione per l’architettura vittoriana e per la giustapposizione di edifici con stili differenti, nei forti contrasti di luci e ombre, nell’aria di pensieroso silenzio, cercheremo di cogliere le maggiori differenze nelle loro opere. Esamineremo il realismo dell’una e i silenzi uniti ai personali tratti surreali dell’altro; il modo in cui l’una allontana le figure dall’osservatore e il fatto che l’altro, spesso, le elimini del tutto, dimostrando così che l’unica cosa da lui ricercata nell’opera dipinta è, appunto, una “surrealtà” metafisica. Confronteremo le distanze, i punti di vista, le strategie visive con cui i due, operando in un preciso ordine complesso, hanno ritratto, come si è detto, soggetti simili.

 

Confronto diretto tra fotografie e dipinti

La facciata

Fig. 1

 Fig. 2

West Street Row III, 1938 – Early Sunday Morning, 1930

La fotografia della Abbott, che si è servita qui del grandangolo, ci presenta una veduta di scorcio, scandita da diversi piani: in basso a destra il muso di un’automobile, le auto parcheggiate lungo la strada, gli edifici su West Street, il grattacielo nell’angolo in alto a sinistra, che porta l’occhio lontano. Interessante è il confronto con un’altra fotografia, Vista from West Street10, scattata nello stesso giorno e che ritrae gli stessi edifici: qui la Abbott si trova più lontano e usa un obiettivo a fuoco lungo, aggiungendo così un altro piano, facendo cioè rientrare, sullo sfondo, gli stabili degli uffici del financial district, ricordato invece, in West Street Row III, soltanto dal citato edificio in alto a sinistra. Ciò che la fotografa voleva produrre con il suo piano di documentazione della città, soggetta a grandi trasformazioni, tra cui quella architettonica, era, infatti, una sintesi che mostrasse il grattacielo in relazione agli edifici meno colossali che lo avevano preceduto.

L’uso di un primo piano scuro (il cofano dell’auto) e di uno sfondo chiaro (il grattacielo di fondo) aumenta la profondità della foto.

Le luci radenti della stagione invernale (la foto è stata scattata in un freddo 23 marzo) ridisegnano sulla facciata le scale antincendio, enfatizzandone il rilievo.

Anche Hopper capisce l’importanza dell’uso grafico delle ombre per strutturare una superficie e così nel suo Early Sunday Morning troviamo le stesse lunghe ombre, qui tipiche dell’alba, che si stagliano sulla facciata illuminata (salta all’occhio anche l’ombra che l’idrante proietta sul marciapiede). Nel dipinto troviamo, al contrario che nella fotografia, una veduta frontale degli edifici (qui Hopper abbandona il punto di vista angolato che lo caratterizza) e, nel complesso, una composizione più asciutta, ripulita da elementi “inquinanti” come le automobili e quindi meno realistica. Questa pulizia contribuisce a dare all’opera un senso di solitudine, accentuato dall’assenza di ogni figura umana (sono le finestre, dipinte ciascuna in modo differente, a suggerire la presenza di diversi inquilini11). La composizione risulta qui alquanto piatta: la strada in primo piano è chiara e l’edificio in alto a destra, sullo sfondo, è scuro (scelta contraria a quella della Abbott)12. Anche in Hopper troviamo dunque, proprio in quest’ultimo elemento, unico a rompere l’orizzontalità, un chiaro riferimento, qui però quasi minaccioso, all’esistenza dei grattacieli. Come abbiamo osservato all’inizio, il pittore non ritrae mai i grattacieli di New York, ma ne accenna solo la presenza come intrusioni frammentarie nel panorama; si pensi al grattacielo che in quegli anni caratterizzava il passaggio intorno a Washington Square e che Hopper rappresenta in lontananza, tagliato in The City13, dipinto nel 1927. Tale atteggiamento ci suggerisce un probabile scetticismo dell’artista nei confronti dei cambiamenti che stavano avvenendo non solo in città ma anche all’interno della società di quegli anni (siamo, con quest’ultimo dipinto, negli ultimi Roaring Twenties).

 

La vetrina

Fig. 3

 

Fig. 4

Bread Store, 259 Bleecker Street, 1937 – Drug Store, 1927

Accanto alle foto di grattacieli, ponti, sopraelevate della metropolitana, ci sono quelle di luoghi più dimessi, come vetrine di negozi, edicole e facciate di case popolari14, che ci ricordano come, negli anni Trenta, New York scontasse il brusco arresto conseguente alla Grande Depressione e fosse ancora in parte, una città “di periferia”. L’occhio acuto della Abbott si sofferma su questa panetteria del Greenwich Village, gestita da una famiglia italiana.

La foto presenta luci morbide, mentre nel dipinto, che ritrae una scena notturna, è la luce artificiale che fascinosamente disegna le cose e crea ombre crude.

Qui la Abbott fa di necessità virtù: ricordiamo che lo stretto e affollato marciapiedi di Bleecker Street le lasciava poco spazio di manovra, ma, sapientemente, ella fa in modo che la vetrina riempia quasi tutto lo spazio della fotografia e riesce a dare risalto all’apertura di accesso al piano interrato - posta sotto la vetrina - e ai cesti di vimini, trascurando di far rientrare nella fotografia il tendaggio - che solo si intravede sulla sinistra - e l’entrata del negozio. È facile osservare che la fotografia è stata scattata in verticale proprio per inquadrare anche il passaggio al piano interrato15, vero cuore della panetteria, dove il pane veniva sfornato due volte al giorno. C’è quindi quasi un invito a scendere verso il basso della fotografia.

Il dipinto, orizzontale, sembra invece voler invitare a percorrere la strada da sinistra verso destra.

La donna della fotografia e la figura ancor più evanescente che le sta accanto si distaccano dall’osservatore stando di là dal vetro e sembra quasi che la Abbott voglia dirci che, come i filoni di pane, anche loro sono destinati a scomparire presto, risucchiati dalla città e dai suoi cambiamenti economici16.

La luce è molto importante in tutte le scene dipinte da Hopper, ma in quelle notturne è quasi la protagonista. La luce artificiale proveniente della farmacia illumina la strada e rende appena visibili gli edifici sullo sfondo. Se la vetrina della Abbott ci lascia intravedere due persone all’interno, mostra i filoni di pane disposti con cura, e, vorremmo qui richiamare Atget, si presenta con un gioco di riflessi sul vetro stesso, la vetrina di Hopper - riempita con tende e prodotti, in un tutto necessario, funzionale alla vita del dipinto - copre invece ciò che avviene all’interno.

 

L’infrastruttura

Fig. 5

Fig. 6

Manhattan Bridge, 1936 – Manhattan Bridge Loop, 1928

Nella fotografia il ponte è segnato dai chiaro-scuri e tutte le ombre sono rivolte verso l’osservatore. Nella ringhiera di destra queste parti scure formano una “quinta” che delimita la composizione. La Abbott ha infatti scattato la fotografia quasi in contro-luce, per esasperare la profondità già data dalla prospettiva. Anche nel dipinto di Hopper troviamo un leggero contro-luce e il muro scuro funge da quinta delineando i vari piani, però solo grazie al titolo riusciamo a capire che gli archi di ferro appartengono a un ponte e non vi è illusione prospettica. Il sole che taglia le facciate permette di renderle più realistiche, risaltandone i particolari; verrebbe da dire: con gli smalti che li caratterizzano; anche il lampione in primo piano presenta un riverbero che non avrebbe avuto con la luce da dietro. La forte orizzontalità suggerisce la continuazione dello spazio oltre i confini della tela.

La figura umana, colta “quasi per caso grazie al lampo di luce che gli colpisce le spalle”17, annette al dipinto il carattere dell’istantanea. Tale carattere è spesso presente nei quadri di Hopper, i cui punti di vista potremmo definire “fotografici”, ed è dato non dal realismo dei dettagli, ma dal realismo dei chiaro-scuri (solo la fotografia è, per definizione, capace di cogliere l’attimo di certe ombre). La stessa figura umana ci comunica poi un senso di smarrimento dell’uomo all’interno di una città fittamente costruita e che presenta grandi infrastrutture: la sua vista sul panorama al di là del ponte è bloccata dall’alto muro che sta costeggiando; e lui appare così piccolo all’interno della composizione18!

Fotografa e pittore hanno in comune la preferenza per il Manhattan Bridge rispetto al più famoso Brooklyn Bridge, che anzi Hopper non ritrae mai.

 

Fig. 7

Fig. 8

Under the “El” at the Battery, 1936 – Approaching a City, 1946

Nella fotografia il realismo dominante è incorniciato su tre lati (a sinistra, in alto e a destra) dalla struttura della metropolitana sopraelevata in ferro e metallo, ricca di chiaro-scuri, attraverso la quale filtra la luce. Il punto di fuga non è centrale, ma un po’ asimmetrico. Le persone non sono affatto casuali, possiamo anzi supporre che la fotografa abbia aspettato il momento in cui i passanti stavano disegnando al meglio lo spazio. Ben nota è infatti la precisione della Abbott, che studiava a lungo i suoi soggetti e le relazioni tra essi e l’intorno prima di scattare la fotografia, non lasciando nulla al caso.

Nel dipinto non ci sono ombre, a parte quella all’interno della galleria verso cui convergono le linee diagonali del disegno; questi accorgimenti rendono misteriosa la galleria e accentuano quell’interesse misto a curiosità e paura che accompagna il viaggiatore quando entra in una nuova città19. Il muro in cemento ci nasconde la vita che potrebbe svolgersi nelle strade della città20, resa surreale dalla mancanza di colori e dettagli, soprattutto nel trattamento dei muri esterni, nella gran parte degli edifici, illuminati da una luce piatta. Un silenzio e una solitudine che contrastano con lo spazio vivo e gremito della fotografia della Abbott. Una cosa però accomuna le due opere, la posizione della fotografa e quella del pittore: l’una è in mezzo alla strada, l’altro sui binari del treno; possiamo concluderne che il punto di vista di Hopper è fotografico (il periodo di tempo in cui potrebbe sostare sui binari per ritrarre il paesaggio è limitato).

 

L’elemento umano

Fig. 9

Fig. 10

El” Station Interior21, 1935 – Nighthawks, 1942

In questa fotografia la Abbott si serve del flash, per compensare la mancanza di luce all’interno dell’entrata di questa stazione della metropolitana. L’elemento che ci fa capire l’utilizzo del flash è l’ombra del tubo della stufa proiettata sul muro di fondo; per il resto la Abbott riesce sapientemente a evitare ogni riflesso sui vetri. Notiamo poi che la fotografa ha operato lo scatto da un’altezza pressoché pari al livello delle porte, per creare l’effetto prospettico deformante delle linee verticali convergenti verso il basso; questo accorgimento è probabilmente frutto della volontà di dare maggiore slancio all’ingresso con i tornelli, elemento degli anni Venti, e di inquadrare al contempo la cornice decorativa posta sopra alle porte. La scritta entrance non è completa, scelta che evita una caduta didascalica.

Ma la verità che preme è costituita dall’elemento umano: nella foto troviamo tre silhouette al di là delle porte vetrate e tre persone, che, seppure più definite non sono meno misteriose. Le figure ai lati guardano l’obiettivo, ma le loro espressioni sono imperscrutabili. Se il tornello si pone tra noi e l’entrata, i volti ci negano l’accesso al mondo interiore dei personaggi: uno, nessuno e centomila?

Nel quadro di Hopper la luce principale, esaltata dalla pittura, proviene dall’interno del bar e possiamo dire che se il dipinto fosse stato una fotografia, l’autore avrebbe dovuto usare un flash,posizionato all’interno del locale22. Le ombre che vengono verso l’osservatore e il bordo scuro sotto la vetrata, che funge da quinta principale e si contrappone alla facciata sullo sfondo, colpita da una lama di luce, conferiscono profondità al dipinto. Pur presentando il dipinto un carattere di istantanea, il vuoto asettico della strada, dove è eliminato ogni elemento che potrebbe costituire interferenza capace di distrarre, è di tipo non fotografico ma pittorico (o potrebbe essere, ai giorni nostri, di post-produzione fotografica). Notiamo qui, in Hopper, un’attenzione particolare alla composizione, alla luce, alla pulizia e, nella Abbott, l’asciuttezza della fotografia, che, seppur seguendo certi canoni, non ha esigenze estetiche, ma, come sappiamo, di documentazione23. La Abbott rimarcava spesso che la fotografia è un medium puramente descrittivo, che deve “lavorare da solo”24 e che non dovrebbe essere usato per simulare effetti tipici di altre arti25. Anche riguardo al dipinto vogliamo soffermarci sull’elemento umano: le figure, nonostante siano concentrate all’interno del bar, in contrasto con l’esterno privo di ogni presenza animata26, appaiono isolate e lo spazio è silenzioso, gli sguardi meditabondi; anche le due persone sedute vicine non si parlano e sembrano immerse nei loro pensieri. Commentando questo silenzio, Hopper dirà di aver così inconsciamente dipinto la solitudine che si prova in una grande città27. Le figure qui, contrariamente a quanto avviene nella fotografia della Abbott, non sanno di essere ritratte, ma ciò che accomuna le due opere è il fatto di rappresentare figure fisicamente vicine ma psicologicamente lontane. Notiamo in effetti come non ci sia mai, sia nelle fotografie della Abbott, sia nei dipinti di Hopper, un “senso di comunità” che unisca le persone ritratte; l’Io e l’Altro sembrano anzi cristallizzati in forme primitive di sopravvivenza28, in un modo inerte di vedere il mondo. In particolare, in Nighthawks come in “El” Station interior, le figure sono atarassiche, non agiscono, sono pure presenze, isolate29 in un ambiente che fa loro da contrappeso, in una società che incalza; ma la rete, che ci ha resi “crocevia di messaggi”30, era ancora di là da venire. E’ d’altronde perfino facile osservare che quegli avventori appartengono alla middle class31, forza economica di quel Paese, e ciò richiama il discorso del 18 marzo 1968 di Robert Kennedy, presso l’Università del Kansas, nel quale quel famoso uomo politico osservava, tra l’altro, che non avremmo trovato mai “una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico”.

Infine, per ben contestualizzare Nighthawks, si ricordi, da una parte, che Benjamin, parlando delle fotografie della Parigi deserta di Atget, le descrive come opere che prefigurano la “estraniazione tra il mondo circostante e l’uomo, che sarà il risultato della fotografia surrealista”32, dall’altra, che la fotografia surrealista era pur tuttavia già nata, avendo trovato il suo primo esponente in Man Ray33 (di cui, peraltro, la Abbott era stata assistente, presso il suo studio parigino, nel 1923; esperienza che la portò ad abbandonare la sua prima passione, la scultura, per abbracciare la fotografia).

Confrontata, secondo le linee esposte dianzi, la New York fotografata da Berenice Abbott con quella metafisica dipinta di Edward Hopper, vanno fatte, a questo punto, alcune considerazioni conclusive. New York “metafisica”? Sta bene, ma, come crediamo di aver dimostrato, in linea con il presente artistico, il quale difatti, “in seguito alla frantumazione del linguaggio avviata dalle avanguardie storiche”, ammette sempre modi figurativi, purché non “sintonizzati sull’ottica del passato”34. Non solo: Hopper fissa certo dei momenti, ma, nei suoi dipinti, è sempre presente la sensazione di un “prima” e di un “dopo”, in sintonia con la vita americana, fatta di scambi e instabilità. Il tempo sfugge, allora, in Hopper, ovvero non è completamente bloccato come nei quadri del grande metafisico De Chirico. Il tempo è una componente fondamentale anche nel lavoro di Berenice Abbott, che si propone di immortalare quei cambiamenti urbani che stanno caratterizzando la New York degli anni Trenta, ancora ferita, come più sopra ricordato, dalla Grande Depressione del ’29, ma presto liberata dalla paura grazie al New Deal roosveltiano.

Inoltre, il confronto delle suddette due New York ci porta a considerare “l’ineludibile e determinante rapporto”35 che la fotografia ha avuto, fin dalla sua invenzione (1839), con la pittura.

Possiamo immaginare che la Abbott, in alcuni casi, si sia lasciata guidare dal gusto di Hopper nella scelta dei soggetti, ma certamente non ha mai preteso di mettersi in gara con la di lui ricerca pittorica. A conferma di ciò, ricordiamo che, ad una conferenza sulla fotografia tenutasi il 6 Ottobre 1951 all’Aspen Institute, Berenice Abbott si soffermò di nuovo su un punto a lei molto caro, sviluppato nel già citato saggio “It has to work alone” 36 dello stesso anno: la fotografia deve essere se stessa; non solo: non deve cadere nell’errore del pittorialismo37, da lei individuato in quel “voler fare delle belle immagini” che caratterizza il lavoro di certi artisti minori, i quali copiano soltanto le qualità superficiali della pittura, senza preoccuparsi dei valori che un dato quadro vuole trasmettere, scambiando, potremmo aggiungere con Giorgio Di Genova “il saper disegnare con la capacità di saper copiare verosimilmente la realtà, cosa che è alla portata di buona parte degli studentelli del liceo artistico, che poi non arriveranno mai a diventare artisti”38.

Detto questo, non si può affermare che la fotografia abbia la semplice funzione di riprodurre la realtà così com’è e che la pittura possa invece, quando lo si voglia, riprodurla, la realtà, così come la vede l’occhio dell’autore: anche il fotografo può giocare su diversi aspetti scegliendo il punto di vista, l’inquadratura, le luci, la messa a fuoco, manifestando così anche le proprie “tendenze psicologiche”39. Dice infatti la Abbott, sempre nello stesso saggio40: “Se il mezzo è rappresentativo per natura dell’immagine realistica formata da una lente, non vedo alcuna ragione per cui dovremmo tentare di falsare tale funzione. Al contrario, dovremmo prenderepossessodi quella stessaqualità, fare uso di essaed esplorarlaalmeglio”.

Analogamente, le opere digitali, ad onta dello strumento privo di ogni emotività ed anzi proprio per questo utilizzato, mostrano ad evidenza le profonde differenze di personalità degli artisti che ne hanno impostato il programma.

Concludendo, l’aura benjaminiana di un’opera d’arte è inscindibilmente legata, a parer nostro, non alla tecnica utilizzata, ma al fatto che quella tecnica corrisponda all’irrevocabile vocazione e alla precisa sensibilità dell’artefice41. Però senza sotterfugi o inganni: si allude qui alle comuni riproduzioni meccaniche e fotomeccaniche spacciate su certi mercati come originali d’artista; una diffusione “di metodi di lavoro che falsano non solo la tradizione (delle stampe originali42 con il loro bravo timbro a secco, marchio dello stampatore ed editore quale garanzia di originalità: il corsivo è nostro) ma lo stesso risultato”43; un risultato che non è falsato invece quando nell’atelier si incontrano l’artista e il torcoliere per quel “qui e ora” in cui si comincia a dar vita ai “fogli” originali44. Altra è invece l’autentica fotografia, come si è visto; ed è ormai certamente superato il tempo, descritto da Man Ray45, caratterizzato da “mancanza di prestigio tra i mercanti d’arte e i critici superbiosi”46 per i fotografi e il linguaggio delle loro opere, ben separato da quelli dei dipinti e della grafica originale. Si tratta infatti di linguaggi non intercambiabili, ma con qualche innegabile apertura47 che li rende intercomunicanti; un’apertura fin troppo enfatizzata da Clement Greenberg il quale arriva a sostenere che “Hopper’s painting is essentially photography”48 (la pittura di Hopper è essenzialmente fotografia).

 

Didascalie delle immagini: 

  1. West Street Row III, 1938. New York Public Library’s Digital Gallery, Changing New York: Photographs by Berenice Abbott, 1935 – 1958.

  2. Early Sunday Morning, 1930. A. Berman, Edward Hopper’s New York, p. 8 e 9.

  3. Bread Store, 259 Bleecker Street, 1937. New York Public Library’s Digital Gallery, Changing New York: Photographs by Berenice Abbott, 1935 – 1958.

  4. Drug Store, 1927. A. Berman, Edward Hopper’s New York, p. 100.

  5. Manhattan Bridge, 1936. New York Public Library’s Digital Gallery, Changing New York: Photographs by Berenice Abbott, 1935 – 1958.

  6. Manhattan Bridge Loop, 1928. A. Berman, Edward Hopper’s New York, p. 76 e 77.

  7. Under the “El” at the Battery, 1936. H. O’Neal, Berenice Abbott, p. 21.

  8. Approaching a City, 1946. The Philips Collection.

  9. El” Station Interior, 1935. New York Public Library’s Digital Gallery, Changing New York: Photographs by Berenice Abbott, 1935 – 1958.

  10. Nighthawks, 1942. A. Berman, Edward Hopper’s New York, p. 98 e 99.

 

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  • I. JEFFREY, How to read a photograph. Lessons from Masters Photographers, New York: Abrams, 2008;

  • J. RAEBURN, “Lost in the city: the New York of Berenice Abbott and Edward Hopper”, in The American Metropolis, Amsterdam: VU University Press, 2001;

  • S. SHORE, Lezione di fotografia. La natura delle fortografie, New York – Londra: Phaidon, 2010;

  • S. SONTAG, Sulla fotografia, trad. di E. Capriolo, Torino: Eiuanudi, 1992.

  

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Note con rimando automatico al testo 

1 Per evitare inutili appesantimenti e ripetizioni, poiché questo testo comprende una bibliografia analitica finale, le note di riferimento saranno formulate in forma abbreviata; soltanto per le opere non riportate nella detta bibliografia si adotterà la consueta forma generale.

2 Riprodotta in B. Yochelson, Berenice Abbott. Changing New York, sub. “Greenwich Village”, img. n.42.

3 A Woman photographs the face of a changing city”, Life, no.1, January 1938, p.40 ss.

4 V. F. Della Bella, recensione a O. Lugon, Lo stile documentario in fotografia - Da Agust Sander a Walker Evans 1920 - 1945, Milano: Electa, 2008, fotoinfo.net.

5 La Abbott, ristabilitasi a New York nel 1929, dopo il soggiorno formativo in Europa, a Berlino e soprattutto a Parigi, aveva subito iniziato a fotografare la metropoli e nel 1931 aveva avviato, a sue spese, il progetto Changing New York. Si era munita di un banco ottico di 8 x 10 inch a cui aveva aggiunto lenti Goerz Dagor da 9½ inch. Tale strumento, seppur poco pratico da portare in giro, le garantiva di ottenere un’alta precisione nelle sue fotografie.
Ci piace ricordare qui un simpatico trait d’union: nel 1927 la Abbott ritrae, proprio nell’anno della sua morte, Eugène Atget e, nel 1947, Edward Hopper nel suo studio nel Greenwich Village.

6 Se è vero, come scrive Susan Sontag, che “la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini.” (S. Sontag, Sulla fotografia, p. 4), chi volesse provare la sensazione di “avere in testa” tutta New York dovrà allora compulsare Changing New York.

7 Cfr. G. Levi, Edward Hopper. An intimate biography, p. 59. Vallotton riflette, come farà Hopper, sull’elemento della modernità, che, come un piccolo demone, si insinua e scuote.

8 V. AA.VV., Precisionism, including: Edward Hopper, (…), Paul Strand, (…), Haephestus Books, p.35 eWikipedia, sub “Paul Strand”.

9 Intervista pubblicata su View, n. 7-8 (numero dedicato al surrealismo), 1941. L’accostamento ci persuade: Hopper è più vicino alla metafisica che al surrealismo; non c’è nelle sue opere tanto una trasfigurazione della realtà, quanto più l’espressione di valori che stanno al di sopra della fisicità, ma in sede di considerazioni finali individueremo un’importante differenza.

10 Riprodotta in B. Yochelson, Berenice Abbott. Changing New York, sub. “Lower West Side”, img. n.12.

11 A. Berman, Edward Hopper’s New York, p. 81. Ci viene qui in mente una frase di Berenice Abbott: “Le loro case rivelano delle persone più di quanto facciano i loro nasi” (“A Woman photographs the face of a changing city”, Life, no.1, January 1938, p.40).

12 È la stessa Jo, moglie di Hopper, che in un suo diario, nel 1960, ricorda gli sforzi del marito per trovare una terza dimensione, una profondità e di come gli furono di aiuto al tal fine l’inserimento, sul marciapiede, del palo, tipico dei negozi dei barbieri, e dell’idrante. V. G. Levin, Edward Hopper. An intimate biography, p. 227.

13 Ne troviamo una riproduzione in A. Berman, Edward Hopper’s New York, p. 29.

14 Sono le sue fotografie della “vecchia” New York che più ci ricordano il lavoro di Atget su Parigi.

15 In un’altra versione della stessa fotografia un uomo fa capolino dalla botola, ma la Abbot preferisce quella da noi descritta, in cui, come in molte foto di Atget di vetrine parigine, il negoziante guarda l’osservatore da dentro al locale. V. B. Yochelson, Berenice Abbott. Changing New York, p. 364. Nel 1912 Atget aveva infatti messo assieme un album intitolato Métiers, boutiques et étalages.

16 Cfr. S. Corwin, J. May, T. Weissman, American Modern. Documentary photography by Abbott, Evans and Bourke-White, p. 25. Completamente diverse sono le figure delle commercianti nella foto di Atget Seller of Café au Lait, Rue Mouffetard, c.a.1898-9 e in quella di Evans Sidewalk and Shopfront, New Orleans, 1935, che posano sulla porta dei loro negozi, accennando un sorriso nonostante le personali condizioni evidentemente disagiate.

17 S. Borghesi, Hopper. Realtà e poesia del mito americano, p.51.

18 Cfr. J. Raeburn, “Lost in the city: the New York of Berenice Abbott and Edward Hopper”, in The American Metropolis, p. 177.

19 V. la citazione di Hopper in L Goodrich, Edward Hopper, p. 70. Per dirla con De Chirico: “et quid amabo nisi quod aenigma est?”.

20 Questo muro fa affiorare un collegamento con la siepe di Leopardi, che questi vede sì come un limite, ma anche come un elemento che consente l’innesto della fantasia; se lo sguardo è impedito, l’immaginazione è accesa. In Hopper però non si ravvisa il dolce smarrimento (nel sentimento dell’infinito) del pensiero leopardiano.

21 Il titolo completo e originale della fotografia è “El” Station: Sixth and Ninth Avenue Lines, Downtown Side, 72nd Street and Columbus Avenue.

22 Il fotografo Julius Schulman, famoso per le fotografie delle case di Richard Neutra, avrebbe parlato di “costruirsi il proprio sole”, sfruttando al meglio la prospettiva e le luci artificiali proveniente dall’interno, in modo da rendere bene tutti i particolari architettonici in fotografia nonostante condizione di luce magari non favorevoli. J. Schulman, Photographing Architecture and Interiors, New York: Whitney Library of Design, 1962, p.58.

23 Si potrebbe parlare di “stile documentario”, termine con cui Walker Evans definisce la sua fotografia. L. Katz, “Interview with Walker Evans”, Art in America, march-april 1971, p. 87. Gli sguardi delle persone all’entrata della El station ci ricordano poi quello della donna immortalata da Evans nel 1929 a Midtown nella fotografia Royal Baking Powder. Sarà in particolare questa foto che porterà il gallerista Julien Levy (lo stesso che pochi anni prima aveva esposto le fotografie di Atget che gli aveva portato la Abbott), nel 1935, a includere Evans in una mostra di fotografi da lui definiti “anti-grafici” e cioè amorali, asettici e al contempo vicini al tessuto della vita reale (cfr. I. Jeffrey, How to read a photograph. Lessons from Masters Photographers, p. 221). Tale descrizione ci ricorda indubbiamente la nostra Berenice Abbott.

24 È del 1951 il suo saggio “It Has To Work Alone” pubblicato sulla rivista Infinity e ristampato in parte da Nathan Lyons nel libro Photographers on Photography del 1966.

25 Cfr. C. Hagen, “Berenice Abbott, 93, Dies; Her Photographs Captured New York in Transition”, The New York Times, December 11, 1991, p. D25.

26 J. Raeburn scrive che il bar appare come un “tenue santuario dalle strade buie e vuote”.J. Raeburn, “Lost in the city: the New York of Berenice Abbott and Edward Hopper”, in The American Metropolis, p. 177.

27 V. K. Kuh, The Artist’s Voice: Talks with Seventeen Artists, New York: Harper and Row, 1962, citato in G. Levin, Edward Hopper, p.63.

28 Cfr. P. Donati, La cittadinanza societaria, Roma-Bari: Laterza, 1993, p. 6.

29 È curioso notare come Hopper, nei suoi viaggi in Europa, abbia sempre evitato l’Italia, Paese in cui l’arte, sia sacra sia profana, è sempre stata animata, popolata; anzi, le persone ritratte risultano spesso più importanti dell’ambiente.

30 R. Bodei, Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano: Feltrinelli, 2013, p. 15.

31 Questo riferimento socio-economico è tratto da alcune considerazioni esposte dal professor Emmanuele Francesco Maria Emanuele, presidente della Fondazione Roma, in occasione della vernice della grande mostra allestita al museo della fondazione stessa, a Roma, nell’aprile 2010.

32 W. Benjamin, “Piccola storia della fotografia”, L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, p. 71. Estraniazione, si diceva; quella stessa che Georges Simenon descrive in Tre camere a Manhattan del 1946: “(...) clienti (...) separati gli uni dagli altri da alcuni sgabelli vuoti e da un altro vuoto, indefinibile e più difficile da colmare, un vuoto che era come un’emanazione del loro essere” (cap. I); e più avanti: “(...) quel giorno, in quel preciso istante, all’angolo tra la Sessantaseiesima Strada e Madison Avenue, si sentiva davvero un corpo inanimato, il cui pensiero, la cui vita, erano altrove” (cap. V).

33 Cfr. J. H. Martin(introduzione di), Man Ray fotografo, 1997, Milano: Idea Books edizioni, pp. 7 e 41.

34 V. G. Di Genova, Storia dell’arte italiana del ‘900. Generazione anni dieci, Bologna: Edizioni Bora, 1990, p.360: “(...) L’arte è sempre una realtà espressiva del presente, dotata di una tensionalità interna rivolta al futuro”.

35 L. Grassi, M. Pepe, Dizionario di Arte, voce “Fotografia”, p. 290 s.

36 V. nota 24.

37 La Abbott identifica due stadi del pittorialismo: il primo è quello di Alfred Stieglitz e della sua stretta cerchia newyorkese, che chiama addirittura superpittorialismo, il secondo quello degli imitatori dell’arte astratta. V. T. Weissman, The Realism of Berenice Abbott, sub prg. “Aspen Institute, October 6, 1951”.

38 G. Di Genova, op. cit., loc. cit..

39 G. C. Argan, L’arte moderna 1770-1970, p. 91. Susan Sontag, al contrario, nel suo Sulla Fotografia, afferma che i pittori, attraverso le loro immagini, ci forniscono interpretazioni personali del mondo, mentre ognuno di noi è in grado di scattare una foto e produrre così pezzi di realtà; con queste parole la Sontag riduce l’intervento umano nella fotografia alla sola e semplice pressione di un tasto.

40 V. nota 24. Il medesimo saggio è citato più sopra in queste stesse “Considerazioni finali”.

41 Se invece i mezzi tecnici avessero la forza di escludere una certa visione/rappresentazione dal dominio dell’arte “(…) allora si dovrebbe escludere l’architettura, per i suoi caratteri pratici, funzionali, e per la soverchianza della tecnica attuativa dal campo delle arti” (C. L. Ragghianti, Cinema Arte figurativa, Torino: Einaudi, 1952, p. 47).

42 Nel suo già citato saggio, Benjamin considera le principali tecniche dell’arte grafica cominciando dalla tecnica dell’incisione a rilievo detta xilografia o silografia, con la quale “diventò per la prima volta tecnicamente riproducibile la grafica” (p. 20). Queste tecniche (a rilievo, come appunto la xilografia, in cavo, come l’acquaforte, in piano, come la litografia) posero termine “a una concezione aristocratica dell’arte” (C. Cases, prefazione al saggio di W. Benjamin, p. 8) ed invero la stampa d’arte è un’opera originale che può essere prodotta a prezzi modesti, gradita a ogni livello di cultura e di gusto. Di un ramo cadetto dell’arte figurativa è infine lecito parlare per i manifesti d’autore di fine Ottocento (da non confondere con quelli di più modesto livello valutabili soltanto sul piano del folklore cittadino); al punto che, nel 1896, Emile Zola poteva scrivere: “Il Salon oggi si trova sulla strada e non sul Champs-de-Mars” (J. Rapek, Introduzione alla mostra “Grafica e fotografia nel periodo della Secessione”, 22 aprile - 21 maggio 1989, Gualtieri, Reggio Emilia, Palazzo Bentivoglio). La Parigi di Atget (v. Introduzione) fu dunque la culla del manifesto moderno.

43 R. Federici,Introduzione a Il Bisonte litografie e incisioni, Firenze, 1980, cit. da F. Fanelli, “Le radici del nuovo”, Il Bisonte. Edizioni d’arte. Catalogo (con una presentazione di Maria Luigia Guaita), Firenze, 2000. Tra gli autori di questa celebre stamperia fiorentina, va qui citato “anche Alberto Sughi, allora tutto preso a scoprire motel e sale da bagno, cristalli e serramenti metallici, quasi un Hopper nostrano, più giovane (...)” (R. Federici, catalogo cit., p. 12).

44 Mentre lo stampatore di opere originali ha la stessa importanza che il direttore d’orchestra ha nella grande musica, non c’è alcun direttore e non si coglie alcun fremito poetico nelle cosiddette stampe d’arte riprodotte con mezzi fotomeccanici (anche quelle di Hopper si possono comprare a pochi euro su Internet).

45 J. H. Martin(introduzione di), Man Ray fotografo, p.33.

46 L’ultima mostra degli scatti di Berenice Abbott è stata ospitata presso la galleria milanese Sozzani dal 9 ottobre 2013 al 6 febbraio 2014 (v. G. Calvenzi, “Il realismo di Berenice Abbott. Quelle immagini analogiche specchio fedele della vita”, Corriere della Sera, 10 novembre 2013; A. Beltrami, “Abbott e l’armonia in bianco e nero”, Avvenire, 26 novembre 2013; “l’artista cattura con l’obiettivo un’immagine del mondo ben precisa e la offre agli osservatori in una rappresentazione di un’esattezza scientifica. Lo stile documentario convive con una nuova visione estetica, caratterizzata dalle prospettive audaci e da una grande attenzione ai dettagli”, ha scritto Lucia Landoni, “NY anni Trenta, l’album amarcord di Berenice Abbott”, La Repubblica, 21 novembre 2013). Negli anni, la sua opera fotografica è stata oggetto di esposizioni, ad esempio, presso lo Smithsonian Museum (1969), il Museum of Modern Art (1970), la New York Public Library (1989); il Jeu de Paume di Parigi (2012).

47 Nella zona di confine tra fotografia e pittura troviamo le tecniche miste del fotomontaggio-collage-acquerello utilizzate da Raoul Hausman, che fu anche grande fotografo (V. G. Rigon, “La creatività in fotografia”, giorgiorigon.it).

48 C. Greenberg, “Review of the Whitney Annual”, Nation, December 28, 1946, ristampato in J. O’Brian, ed., Clement Greenberg: The Collected Essays and Criticism, v.2, Chicago: University of Chicago Press, 1986, p. 118. Dell’apparente analogia tra il linguaggio pittorico e quello architettonico ci avverte, in un elzeviro, Gillo Dorfles, secondo il quale tale accostamento può risultare perfino “molto pericoloso”. (“Giorgio De Chirico mago delle città”, Corriere della Sera, 9 gennaio, 2010.) Di fotografia come “scandaglio nei segreti architettonici” ha scritto Roberta Scorranese: “Catturare l’anima di un edificio. Il sogno che iniziò nell’Ottocento”, Corriere della Sera, 8 maggio 2014; la quale, riferendosi al Flatiron Building di New York raffigurato dalla Abbott, lo vede come “una scultura dilatata”. 

 



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