Statistiche dal 2010

Visite agli articoli
4402466

Abbiamo 148 visitatori online

Cerca nel sito

Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

non ha scopo di lucro, non propone alcuna pubblicità e ha come unico interesse la diffusione della cultura.
Pertanto, le immagini pubblicate si attengono all'a
rticolo 70, comma 1bis della legge sul diritto d’autore, dove si afferma che è possibile la "libera pubblicazione attraverso la rete Internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro".


Iscriviti al nostro
canale WhatsApp
sul cellulare

 - Nuova informativa sui cookie -

 


Testuali parole

(in)attese analogie

Leopardi

E’ cosa risaputa: la poesia, la letteratura, la pittura, la musica, ecc., rivelano talvolta contaminazioni e reciproche influenze che in certi casi possono sorprendere o quanto meno, far insorgere dubbi e sospetti. Ma cosa si nasconde realmente dietro a quelle analogie che chiamano più o meno direttamente in causa poeti, scrittori, pittori e musicisti a prescindere dalle rispettive sensibilità artistiche ed epoche di appartenenza? Inoltre, come sarebbe oggi la nostra immagine del mondo se fosse venuto a mancare il contributo di coloro che hanno partecipato all’avventura della conoscenza con spirito critico, apertura mentale, capacità di pensare la realtà in modo diverso da come essa ci appare? Chissà! Tutto dipende da come noi interpretiamo ciò che ci circonda e ovviamente, ciascuno lo fa in rapporto alle proprie radici culturali. Nel libro “Manifesto del nuovo realismo”, il filosofo Maurizio Ferraris1 propone un esempio perfettamente calzante prendendo spunto dalla Sindone di Torino e le diverse interpretazioni che su di essa potrebbero dare un credente, un agnostico ed un indio del Mato Grosso. In buona sostanza, i tre personaggi si trovano dinanzi allo stesso oggetto fisico ma vedono in esso oggetti del tutto diversi.2

Il dibattito filosofico si sofferma da tempo su tali questioni, chiamando in causa la natura stessa del pensiero scientifico per la sua forza ribelle, la capacità di sovvertire l’ordine delle cose. Per il fisico Carlo Rovelli, ad esempio, la parola “scienza” corrisponde ad una “attività di revisione critica continua della nostra immagine del mondo”, un mondo che agli occhi del semiologo Paolo Fabbri si trasforma in una “pluralità di mondi con diverso grado di realtà…”.3 E’ dunque con questo genere di “mondi” che i paradigmi del “senso comune” devono misurarsi ed è in tale ambito che va collocata la posizione di coloro che, con spiccata sensibilità intellettuale, riescono ad aprire nuove finestre su di essi. Data la vastità dell’argomento, soffermeremo l’analisi su un aspetto che a prima vista potrebbe sembrare di marginale importanza ma che, a ben guardare, stimola una vera e propria curiosità. Si tratta del “suono delle campane”, una sensazione uditiva tra le più comuni che però, all’occorrenza, pare tramutarsi in una sorta di “stargate” capace di catapultare la mente in una dimensione diversa dal reale. Illustri personaggi sono stati attratti dalla forza suggestionante di quei magici rintocchi che, per secoli, hanno accompagnato i ritmi del nostro vivere quotidiano scandendo il trascorrere del tempo, annunciando momenti di gioia, di dolore, di pericolo e così via dicendo.

L’uomo “sensibile e immaginoso” va dunque alla ricerca del doppio senso celato nelle cose osservate, udite. E’ lo stesso Giacomo Leopardi nello Zibaldone a darci il senso di questa particolare percezione del mondo reale. Nella sua “teoria della visione” come del resto in quella del “suono”, il poeta di Recanati non esita a definire “piacevole” per le sensazioni che suscita, la vista di una lontananza nella quale l’occhio si perda o la cui osservazione sia impedita da un ostacolo, perché in luogo della vista lavora l’immaginazione ed il fantastico sottentra al reale. Nell’ambito di questa profonda sensibilità poetica, per sua voce acquistano rilevanza anche certi suoni percepiti, ritenuti suggestivi perché vaghi: lo stormire del vento tra le fronde degli alberi, il suono di una campana, ecc.

“All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi, e gli altri sentimenti ricevono la sensazione”. (“Zibaldone”, 30 novembre 1828, carta 4418).

In questa doppia visione della realtà pare di sentir riecheggiare il “suono delle campane” citate da Leonardo da Vinci nel Testo sulle macchie del Libro di pittura che, con i loro “tocchi”, possono evocare qualsiasi nome o parola desiderata. Una riflessione poetica di gusto leopardiano che ci mostra un Leonardo a sua volta “sensibile e immaginoso”, deciso nell’accostare la forza suggestionante di questa particolare sensazione uditiva a quella delle “cose confuse” osservate in natura, conferendo con questa scelta uno stile poetico all’intero precetto. Un equilibrato accostamento tra scienza e poesia che ben si addice a due attenti osservatori dei fenomeni naturali, abili anche nel saper cogliere gli aspetti poetici che si sprigionano da quel magico, inesplorato mondo. Cita infatti Leopardi nello Zibaldone: “Nulla di poetico si scopre quando si guarda alla natura con la pura e fredda ragione, quindi nulla di poetico potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica”.

Ma veniamo al celebre precetto di Leonardo:

Non resterò di mettere fra questi precetti una nuova invenzione di speculazione, la quale, benché paia piccola e quasi degna di riso, nondimeno è di grande utilità a destare l’ingegno a varie invenzioni. E questa è se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o in pietre di vari misti. Se avrai a invenzionare qualche sito, potrai lì vedere similitudini di diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, alberi, pianure grandi, valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie ed atti pronti di figure strane, arie di volti ed abiti ed infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e buona forma; che interviene in simili muri e misti, come del suono delle campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabolo che tut’immaginerai…”. (Leonardo da Vinci, Testo sulle macchie-prima parte, Codice Vaticano Urbinate lat. 1270, f 35 v, cap. 66).


  Pur seguendo un percorso autonomo nel formulare le rispettive teorie, Leopardi e Leonardo
sembrano aver avuto la stessa intuizione: capire che la realtà sensibile, opportunamente interpretata, può fornire preziosi stimoli alla fantasia nel configurare una dimensione diversa dal reale, sia essa riferita a particolari stati d’animo od a semplici percezioni sensoriali. Un possibile incontro tra un geniale artista del ‘400 ed un celebre poeta dell’’800 sfuggito alla critica? Ipotesi suggestiva! Purtroppo gli accertamenti finora effettuati, dimostrano che tali affinità di pensiero possono essere collocate solo nell’ambito delle infinite, possibili suggestioni e analogie le quali, da sole, niente aggiungono a quanto già saputo né potrebbero farlo per le seguenti ragioni: un apografo del “Trattato della architettura e della pittura” (opera composita di appunti, precetti e teorie leonardesche raccolti da un allievo dell’artista e pubblicata postuma) è registrato nel Catalogo della Biblioteca Leopardi, ma non conosciamo in quale anno ne sia entrato a far parte; detto Catalogo comprende infatti libri acquisiti dopo la morte di Giacomo, pertanto non visionati dal poeta; infine, in tutto il corpus leopardiano Leonardo non è mai citato. La ricerca approda dunque ad un nulla di fatto. La mancanza di dati precisi sulle fonti, non esclude a priori la possibilità che Leopardi possa aver tratto ispirazione da testi di altri autori con contenuti affini a quelli citati nel precetto leonardesco. A tal fine si rivela utile una segnalazione di Carlo Pedretti riportata nella XLIV Lettura Vinciana4 e riferita ad un’opera scritta da Lorenzo de’ Medici, coetaneo di Leonardo, abile mecenate, fine poeta e conoscitore d’arte, attorno agli anni ottanta del ‘400. Si tratta di una raccolta costituita da 41 sonetti ed altrettante chiose titolata “Comento de’ miei sonetti”, dalla quale emergono evidenti affinità con il celebre testo di Leonardo sulle macchie (scritto successivamente, nel 1492). Evidenziamo qui di seguito i contenuti del sonetto XVII di Lorenzo e parte della relativa chiosa esplicativa:

Chiare acque, io sento il vostro mormorio, che sol della mia donna il nome dice: credo che, poiché Amor fevi sì felice, che fussi specchio al suo bel viso e pio. La bella imagin sua da voi partio perché vostra natura vel disdice; solo il bel nome a voi ricordar lice, né vuole amor che lo senta altri ch’io. Quanti più furo o fortunati o saggi che voi, chiare acque, gli occhi miei, quel giorno che furno prima specchio al suo bel volto, servando sempre in loro i santi raggi! Né veggon altro poi mirando intorno, né gliel cela ombra né dal sol gli è tolto.”.

Stralcio del commento di Lorenzo de’ Medici al proprio sonetto:

“… Interviene dunque molte volte che quando altri sente qualche continua e non articulata voce, la inmaginazione nostra si accomoda quella tal voce a quello che allora più inmagina,e, inmaginando, gli pare articulata quella tal voce dandogli quel senso e faccendoli dire quello che più desidera; e comunemente, sonando campane, cadendo una acqua continua, pare che questo tale suono dica quella cosa che vuole colui che la inmagina. Vedesi ancora, per essemplo di questo, qualche volta nelle nube aeree diverse e strane forme d’animali e d’uomini; e, considerando certa ragione di pietre che sieno molte piene di vene, vi si forma ancora dentro el più delle volte quello che piace alla fantasia. Questo medesimo interveniva a me, che ritrovandomi in un luogo amenissimo dove era uno chiaro e abundante fonte nel quale perpetua(l)mente l’acqua, cadendo da alto, faceva uno dolcissimo mormorio, a me pareva che quel mormorio continuamente dicesse el nome della donna mia, perché questa era quella cosa la quale più inmaginavo e quel nome che più desideravo sentire…”.5

Lorenzo il MagnificoSarebbe interessante risalire alle fonti che potrebbero aver ispirato Giacomo Leopardi in rapporto alla sua Teoria sull’indefinito citata nello Zibaldone. Per quanto riguarda i sonetti di Lorenzo de' Medici, dovrebbero valere le stesse procedure d’indagine già applicate per il testo di Leonardo, dato che la filologa Maria Corti aveva evidenziato la presenza in Biblioteca Leopardi di due edizioni di Lorenzo il Magnifico. In mancanza di risultati certi, la ricerca potrebbe estendersi ad altri testi provenienti dall’ambiente dell’Accademia neoplatonica fiorentina, purché evidenzino, nei contenuti, analogie riconducibili alla capacità umana di saper interpretare il doppio senso celato nelle cose osservate o udite. Questa è solo una strada tra le tante: la ricerca non è affatto semplice e come già visto, potrebbe portare ad un nulla di fatto.

Per nostra fortuna esistono situazioni nelle quali la ricerca delle reciproche contaminazioni risulta meno problematica, pur mantenendo un certo margine di imprevedibilità nel verificarsi degli eventi.

Senza discostarci dal tema delle suggestioni create dal “suono delle campane”, vale la pena di appuntare l’attenzione su un’opera musicale (cantata per soli, coro ed orchestra, op.35) realizzata nel 1913 da Sergey Rachmaninov. L’opera si intitola “Kolokola” (Le campane) ed è ispirata alla poesia omonima di Edgar Allan Poe. C’è una storia singolare dietro a questa vicenda che accomuna due personaggi così diversi tra loro sia per storia personale che per stile di vita, eppure così vicini nel comune gusto per la reiterazione, le atmosfere lugubri, la sensiblità musicale. Si dice infatti che Poe fosse dotato di un “orecchio assoluto”, ovvero la capacità di saper riconoscere l’altezza assoluta del suono di una nota musicale (frequenza) senza l’ausilio di suoni campione presi a riferimento (diapason).

RachmaninovPoe

La musa ispiratrice questa volta arriva sotto forma di una lettera anonima. Si dà il caso che Rachmaninov fosse da tempo alla ricerca, senza esito, di un testo da poter adattare ad un suo importante progetto musicale. Dopo lunga attesa, inaspettatamente, ricevette una lettera anonima con acclusi alcuni versi poetici scritti in lingua russa. Il misterioso scrivente gli consigliava vivamente di leggerli perché, a suo dire, ben si prestavano ad essere tradotti in musica. Il testo proposto dallo sconosciuto si riferiva a una versione – liberamente interpretata dal poeta simbolista Konstantin Balmont - della poesia di Poe “The bells” (Le campane, 1848)”. Rachmaninov rimase subito affascinato da quei versi che descrivono così bene la parabola dell’esistenza umana e li tradusse in musica. Solo dopo la sua morte si apprese che la lettera gli era stata inviata da una giovane studentessa di nome Marija Danilova, allieva del violoncellista Mikhail Bukinikl, vecchio amico del compositore russo.

Ma le campane di Poe, poeta del terrore e dell’incubo, uomo dell’800 eppure così eccezionalmente moderno, non trasmettono sensazioni piacevoli come quelle evocate da Leopardi, non suggeriscono parole e nomi desiderati come nel caso dei “tocchi” citati da Leonardo o delle “articulate voci” percepite da Lorenzo de Medici nel “mormorio” delle “chiare acque”: le campane di Poe “…gridano alto il loro spavento!”, sono “troppo spaventate per parlare, esse possono solamente gridare, gridare…”. Non sorprende dunque che il giovane Pym di Nantucket (protagonista de Le avventure di Arthur Gordon Pym) in un momento di estrema difficoltà, terrorizzato dall’idea di cadere “…nel pauroso abisso che si spalancava sotto di lui”, nell’udire il classico “tintinnìo”, abbia pensato senza esitare: “Questa è la campana che suona la mia morte!”.

Dinanzi ad una “pluralità di mondi” così diversificati, seppure orbitanti attorno ad una percezione sensoriale ben definita, non resta che prendere atto delle molteplici direzioni verso le quali potrebbe orientarsi la prua del nostro vascello. La goletta “Jane Guy” ha di nuovo spiegato le vele al vento ed è in rotta verso le ignote regioni antartiche create dalla fantasia del “visionario” Poe. Quante difficoltà e quali rintocchi accompagneranno il nostro perigrinare verso quelle impalpabili lontananze? Riuscirà il capitano a condurci con mano ferma all’approdo tanto agognato, dove troveremo spiagge così bianche ed acque così azzurre da superare in bellezza qualsiasi luogo esistente al mondo? Una celebre canzone dei Procol Harum dal titolo “A salty dogsembra dirci che tutto questo è possibile, dando a sua volta un ulteriore impulso alla spirale delle infinite analogie che sembra davvero non aver mai fine. Ma di questo non dobbiamo preoccuparci. Ci attende l’approdo incantato, dove le navi vanno a morire ed i marinai versano lacrime di gioia, accompagnati magari da un suono di campane.

 

Note al testo

1 Vedi saggio di Stefano Traini «Il “nuovo realismo” e alcune considerazioni semiotiche», in Ocula contrAppunti, p.74.

2 M. Ferraris, “Manifesto del nuovo realismo”, Roma-Bari, Laterza, 2012: “…Un credente, un agnostico e l’indio del Mato Grosso fotografato qualche anno fa, appartenente a una tribù rimasta al Neolitico, se per ipotesi si trovassero di fronte alla Sindone vedrebbero lo stesso oggetto naturale, poi il credente riterrebbe di vedere il sudario di Cristo, e l’agnostico un lenzuolo di origine medioevale, ma vedrebbero il medesimo oggetto fisico che vede l’indio, il quale non ha alcuna nozione culturale del nostro mondo”, p. 74.

3 P. Fabbri “Natura, naturalismo, ontologia: in che senso?” in Gianfranco Marrone (a cura di), Semiotica della natura (natura della semiotica), Mimesis, Sesto San Giovanni , Milano, 2012, pp. 25-40.

4 C. Pedretti, “Le macchie di Leonardo. Perché dalle cose confuse l’ingegno si desta a nove invenzioni”, XLIV Lettura Vinciana, 17 Aprile 2004, Firenze, Giunti Editore S.p.A., pp. 43-44 .

5 Lorenzo de’ Medici, Opere, ed. a cura di Attilio Sirmioni, Bari, 1913 (seconda edizione 1939), vol. I, pp.72-75.

 

abbiamo aggiornato l'informativa sui cookie