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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Scintille fuori misura

Un palco piccolo, poco profondo. Buio di inizio scena. Sulla sinistra uno seduto suona la chitarra, su una base di percussioni. Siamo all’aperto, a Villa Mercede (Roma, 7 settembre 2017), al Fringe festival, rassegna del teatro indipendente. Va in scena OcchioPin’, del Teatro Rueda, compagnia di tutti under 30dopo l’esordio di giugno al Milano Off Fil Festival.

Sulla parete di fondo stanno sedute di profilo quattro persone. Dormono. Poi si accendono lucine sopra di loro. Prima seduti, e poi avanzando in piedi, compiono ritualmente ripetute la serie banale delle azioni quotidiane: mangiare, lavarsi, vestirsi. Fino a tornare a dormire sulle sedie, a luce spenta. Una epifania al ritmo di una musica lieve e seriale, e col tono ironico e leggero dei balletti di Pina Bausch. Un inizio arioso, che fa ben sperare, e ti orienta ad una fruizione formale, distaccata, mentale. Anche se un po’ tirato per le lunghe, e in seguito abusato come leitmotiv e cornice. Ma la cornice formale si spezza. Ecco le querimonie del protagonista, seduto a terra. Parla veloce, esagitato, virando dal lamento alla protesta rabbiosa.

Perché l’impegno non viene riconosciuto / Perché bisogna andare a messa solo oggi che è domenica / Perché si dice che questo mondo fa schifo, e poi si mettono al mondo in figli / Perché si ha paura del tempo che passa / Perché si ha paura di diventare vecchi / Perché non nasciamo o tutti ricchi o tutti poveri / Perché si dice che sbagliando si impara, e chi sbaglia viene punito / Perché mangiare troppe caramelle fa male, se farlo mi rende felice / Perché è imbarazzante avere una erezione in pubblico / Perché bisogna rifare il letto tutti i giorni se tanto viene disfatto / Perché ci si vergogna di piangere / Perché ci sono delle persone che non incontreremo mai / Perché i grandi non giocano“

Siamo piombati di botto nel realismo, ma soprattutto, col testo, nel banal grande. Sono le parole di un bambino? Di un adolescente? Parlano così? E quale dei due? Qual è l’età di questo che si rivelerà dover portare sulle spalle il peso di una ribellione e di una diversità che vireranno sempre più al tragico?

Nel libro di Negrin (che però non ho letto) Pinocchio è emigrato nell’hinterland milanese. Ma è un bambino, e gli indicatori editoriali lo segnalano come un libro adatto ai nove anni. Nel programma di sala però la compagnia dichiara essere il protagonista ‘un giovane adolescente’. Quindici anni? Le caramelle? I grandi non giocano? Mah !! E comunque, quand’anche le domande fossero congrue, recitate in fila come una petulante lista, ricordano più le proteste del querulo burattino collodiano, che non un introverso adolescente.

Ma si insiste. Dopo un nuovo rituale delle sedie, eccolo lì a ripeterle queste domande, al rallentatore, computando, mentre le scrive sul pavimento.

La tentazione sarebbe di andarsene, se non fosse crudele. E sarebbe stato anche ingiusto, perché lo spettacolo, pur pieno di discontinuità e difetti, va in crescendo, arrivando alla fine ad alcuni momenti veramente forti e belli.

Soprattutto quando sulle parole prevalgono corpo e azione, ed un uso della voce meno naturalistico accademico.

Ma prima continuiamo a soffrire, e soffriamo con lei, Ottavia Della Porta, a cui è toccato di reggere il ruolo più difficile, sia per la complessità intrinseca, sia per quella che ritengo essere stata una errata scelta di registro interpretativo (Scelta della regia? Sua?) – Il ragazzo protagonista, problematico e ribelle, ha padre e madre in scena, ma scaglionati su due tipologie e registri interpretativi che stanno agli antipodi. Il padre è un coatto arcaico e privo di empatia. Un padre adolescenziale e falsamente normativo (Livio Berardi). Vuole un figlio maschio e performativo, nelle regole, ma se ne disinteressa se non per sconfermarlo, mentre guarda in TV John Wayne, e tifa per lui. La madre è una gelida e rigida perbenista, che oscilla tra l’essere madre sua reale, che dichiara una protettività in realtà sadica, ed essere la protettrice della comunità: valori, ordine, lavoro. Lo stato? La dittatura? E’ una madre reale? Un archetipo della madre negativa e castratrice? Il simbolo di un ordine sociale repressivo?

Così anche i registri interpretativi cozzano.

Il padre si adagia in un naturalismo un po’ urlato e umorale, ma a tratti credibile, per intenderci sulla scia di Elio De Capitani e del teatro dell’Elfo.

La madre invece è stata impostata su una rigida astrazione psicofisica, raggelata in statua urlante stentorea, in piedi su un cubo. Non può essere reale, ma neanche simbolicamente ambigua e perfida nel suo sadismo (che per me sarebbe stata la scelta migliore, e coerente al finale), né tantomeno ambigua e misteriosa come la fata di Pinocchio. Perché è ovvio, anche dal titolo, che lui è Pinocchio, e lei la fatina.

E così all’attrice non resta che declamare il testo, anche qui pessimo e didascalico, che tutto dichiara, senza contesto situazionale né sviluppo, come un compitino. 

Ragazzo !!!! Sono qui per fare del bene, per dar giustizia, per aiutare, per migliorare. Ragazzo !!!! Io devo essere a capo di questa città. Io devo essere madre di ogni cittadino. Devo rassicurarlo e confortarlo. Fargli credere di essere bravo e capace. Devo impedirgli di soffrire. Devo obbligarlo se non ubbidisce. Devo punirlo. Sbaglia quando va contro il suo popolo. Quando non rispetta le regole, quando prova ad essere libero. L’uomo non è capace di essere libero. Non sa che farsene della libertà. La libertà ti condanna ad essere infelice. L’uomo ha bisogno di sicurezza”

Vecchio discorso quello sulla libertà, e che raggiunge i vertici nel discorso dell’Inquisitore, nei ‘Fratelli Karamazov’ di Dostoevskij, ma all’interno di ben più ampia cornice preparatoria, anche se si potrebbe pensare che da lì venga il Cristo che si materializza alla fine dello spettacolo. Non lo si può dichiarare così a freddo. E per quanto riguarda il sadismo sotterraneo che permea i rapporti di potere, anche a livello generazionale, si pensi al sadismo graduato ed indiretto di ‘La lezione’, di Ionesco, o in modo più divertente, al testo di Gaber – ‘La caccia. La benda’, dove dopo una gradazione comico crescente nella coscienza della possibilità di essere diversi, scatta a ritmo sincopato la vendetta della comunità, “... prendilo prendilo ammazzalo ammazzalo”.

Qui le carte invece sono subito tutte in tavola, come nella lezione di un cattivo professore. E la cosa risulta predicatoria.

Ma proseguiamo. Segue con stridore il registro realistico di cui sopra. Il protagonista (Leonardo Bianchi) gioca rumorosamente con due compagni, che però progressivamente lo vessano, fino a che, lui a terra, lo riempiono di calci. A seguire, in scena padre e figlio. Il padre, che guarda la TV, oscilla tra il non ascoltarlo e la polemica. Il figlio si dichiara incompreso e non sostenuto. Ma non c’è contatto. Un caso da terapia. La spiegazione psicologica di come si diventa vittime predestinate del bullismo. Ok, uno si dice. Sempre detto tutto insieme, sintetico, ma forse stiamo verso il realismo. E comunque si sta impostando il registro tragico. Scattano delle aspettative, e sembra esserci coerenza.

La coerenza rimane, ma muta lo stile, anche se bisogna dire che è da qui che decolla lo spettacolo. Spariscono infatti quasi le parole, se si esclude una reiterazione predicatoria della madre-fatina, che dichiara di abbandonare il figlio alla punizione.

In rapida sequenza lui beve, e poi, ubriaco, danza dionisiaco, fugge dal padre, e si denuda. E nella danza Bianchi è bravo, burattinesco, gestuale, a scatti, tra disperazione e liberazione.

Seguirà l’iniziazione vestizione dello scherano che sarà attore della persecuzione del figlio (Francesco Sannicandro), uno specie di Lucignolo in nero, ma dalla parte del padrone.

E qui anche la fata (Ottavia Della Porta) dà il suo meglio, nel ridursi ad una gestualità ieratica, da ‘regina della notte’ mozartiana, mentre lega il nero Lucignolo, e lo tira a sé, rendendolo il burattino della sua missione punitrice. Burattino al guinzaglio.

E ora a sua volta l’esecutore si scatena, e mette al guinzaglio il nudo figlio ribelle. Gli danza satanico ed ilare intorno, come un Calibano frenetico e sincopato, alternando urletti striduli e battenti in falsetto isterico e istrionico, come colpi di frusta, a ruggiti baritonali. Come il fischietto di ‘Act sans parole’ di Beckett, robotizza il figlio all’obbedienza, strattonandolo col guinzaglio, e urlandogli il decalogo.

Ore 10 scuola / Ore 11 scuola / Ore 12 scuola / Ore 13 … driiiin a casa… dolce casa / Ore 15… sparecchiare / IAMME
IAMME / Dovrai essere rispettoso anche se ti sentissi oltraggiato minacciato percosso deriso … RIDI !!! / Evitare giochi danze etc RIPETI !!! / UN DUE, UN DUE / ANDREMO LONTANI”

Il finale si avvita. Il figlio è a terra, fetale, e il padre pietoso lo mette supino, le braccia aperte a croce. Segue lo stacco delle sedie, e, ritualizzati, false condoglianze e lo sparlare della folla.

La conclusione oscilla tra la pietà di Michelangelo e il ‘Cristo sul tavolaccio’ di Mantegna.

Anche il padre diventa vittima, vittima della propria ingenua insipienza, e terra di dolore. Un tempo si sarebbe detto ‘vittima del sistema’.

Diventa lui (e non la madre) la Madonna, e prende lui pietosamente in braccio il figlio-Cristo, per ricomporlo su una tavola inclinata, fronte al pubblico. Lo bacia silente, gli mette le braccia conserte, e come in un Cieslak, l’attore delle sacralità gestuali grotowskiane.

Bello ! Ma bisogna decidersi. Pina Bausch, realismo psicologico e dramma sociale, teatro dell’assurdo sadico, tra Beckett e Ionesco. Il gestuale terzoteatristico e il sacro grotowskiano.

Comunque sia un gruppo ricco di potenziale, anche se deve disciplinarsi, e notevole l’energia e la gestualità di Sannicandro.

Un gruppo che forse deve la sua parziale caduta alla troppa ambizione.

 

Scheda tecnica

FRINGE FESTIVAL Festival del teatro indipendente

Teatro Rueda, OcchioPin, tratto dal libro di Fabian Negrin Occhiopin. Nel paese dei bei occhi (2006)

Regia, Laura Nardinocchi

Musiche originali, Francesco Gentile

Attori

Livio Berardi ………………….. il padre, uno dei ragazzi

Leonardo Bianchi …….……….. il figlio

Ottavia Dalla Porta …………… la madre – fatina

Francesco Sannicandro …….…. uno dei ragazzi, e il persecutore


7-8 Settembre 2017 –ROMA – Villa Mercede

 

 

 

 

 

 

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