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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Una felice orgia stilistica come ipersegno del tragico

 

Come è noto con Jarry e il suo ‘Ubu roi’ felicemente si ride, nell’intelligente profondarsi comico grottesco che aggiorna gli stridori degli psico-abissi del potere macbettiani al becerume del potere come ordinaria amministrazione della violenza nelle dittature a venire, da lui anticipate, e per noi di novecentesca seriale memoria. Si sa, Jarry, con questo testo del 1896, è antesignano di tutto, dalla crudeltà artaudiana, all’assurdo, all’uso parodico e dadaista dello straniamento. Antesignano persino del postmoderno, nel suo ipercitazionismo.

Con ‘Ubu roi’ si ride, ci si sganascia dalle risate, e si dimentica per strada il brivido che ci dovrebbe percorrere. Il grottesco ci libera, e muta il tragico in farsa, in ‘gran guinol’ del così fan tutti’.

Non è così però nella versione di Roberto Latini, già nei circuiti dal 2012, ma continuamente riaggiornata, ed approdata al Vascello (Roma, 2-7 febbraio 2016).

Il regista conserva per intero la carica demenzial comica del testo, ma la reduplica e derealizza, lavorandola ai fianchi, pur rimanendo fedelissimo alla lettera del testo, che si srotola sulla scena per lunghissime due ore (forse l’unica pecca).

La trama è nota. Ubu e madre Ubu sono le controfigure degradate e da osteria di Macbeth e Lady Macbeth, e ugualmente lei inciterà lui, con violenza sessualizzata, a scalare il potere (uccidere il re di Polonia Venceslao), vincendone l’intrinseca vigliaccheria macbettiana, ma anche l’amletica accidiosa pigrizia. Lei e lui però, più che al potere, pensano al denaro, e per questo litigheranno. E’ un potere ‘merda’ - come la luterana e anche freudiana equivalenza denaro/cacca/cacca del diavolo - e ‘merdre’ è il neologismo chiave di Jarry (somma di ‘merde’ e ‘mère’ … merda e madre).

Si sa del resto della misoginia edipica e paraomosessuale di Jarry, al cui testo non si nega certo il risvolto farsescamente edipico dell’ammazzamento del padre.

Fin qui come da copione, con ritorno dei vendicatori e sconfitta. Salvo però il salvarsi, ben vivi, dei due criminali politici, imbarcatisi per un salvifico nuovo approdo, e per niente scossi. Briganti incalliti, in fondo se ne fregano, e ogni risvolto tragico è da Jarry affogato e cassato nella normalizzazione normativa della furfanteria universale. Diremmo, con Anna Arendt, la banalità del male, priva di ogni gigantismo.

Ma la furfanteria fa male al mondo, ed anche i furfanti sognano e sono poetici, mentre ignari seminano tragedia. Ed il mondo la tragedia consente e perpetua perché sta a guardare, esternalizzando le colpe.

Questo sembra dire il plusvalore della regia di Latini: è tutto rituale, ieraticamente e imperturbabilmente primitivo; una coazione a ripetere, una macabra e circense danza di marionette. E del resto per marionette originariamente era pensato il testo di Jarry, e chissà se non con memoria della kleistiana metafisica appunto delle marionette.

E così si apre la scena, fatta di geometrie silenzi e biancori rarefatti, alla Bob Wilson. Un cubo bianco nella piena luce, dove avanzano in tunica bianca dei bonzi, al rallentatore, con maschere seriali da primati. Andranno a sedersi in fila, in avanscena, davanti ad un simbolico monolite adagiato, tavola metafisica su cui con pertiche-canna da pesca fanno dondolare delle salsicce (carne di porco dell’umanità, banchetto del potere ?).

Uno di loro, dietro, emette stridii da scimmia irritata, con guanti rossi sulle mani. La cerimonia del sangue ? Di sfondo rumori e borborigmi equatoriali e acquatici, e rarefatte musiche al pianoforte. Da destra poi entra LATINI-PINOCCHIO, con asta microfonata a canna da pesca, per svanire subito a sinistra.

Il rito ha inizio.


Incomincia la giostra di madre Ubu – uno splendido Ciro Masella in abito bianco da sposa, naso rosso da clown, guanti rossi, e nero cappellaccio da gangster. Convincerà Ubu al delitto, poi salirà in stop motion su una colonnina, a fare la statua della soddisfazione, con la lingua fuori a maschera di sberleffo gioioso. Il tutto ha ritmi espressionistico circensi.

Ma la scena muta, in controcanto di inquietudine. Ora è Pinocchio ad essere solo in scena, con naso lungo e faccia bianca da Pierrot. Rotea disperato, trascinato a vortice da una catena al collo che fa roteare, e poi è a terra, immobile.

Segue il balletto dell’amore tra gli Ubu, lei e lui. Con testa mascherata da leone e leonessa, e pantaloncini rossi, seminano fiori e li raccolgono, con felice corteggiamento. L’innocenza pupazzesca è al contempo farsa, finzione e realtà. Gioia bambinesca e innocente dove il crimine diventa furto della marmellata e iniziazione adolescenziale.

Perché i due Ubu di Latini (e forse di jarry) sono grevi e volgari, ma anche idioti dostoevskiani, criminali innocenti. E così a seguire. Anche il re morituro, e la moglie ed il figlio, sono beceri e bambineschi. Agiscono dentro la cornice di un quadro, che portano con sé, e gattonano, e urlacchiano al megafono come scomposti narcisisti infantilmente e capricciosamente onnipotenti.

E’ la perfidia bambinesca polimorfa e perversa dell’umanità intera che si squaderna in loro.

Si potrebbero descrivere infiniti particolari. Il meccanismo comunque è questo, un alternarsi composto e scomposto di farsa, poesia e sdoppiamento tragico, di cui Pinocchio

è il doppio inquietante. E’ il doppio di Ubu, è attore e vittima di se stesso. E’ la coscienza triste che presagisce il sé adulto, la coscienza dell’umanità-pubblico che non si può tirare fuori. E’ il regista in scena, kantorianamente, nello sdoppiamento ambiguo di teatro e realtà, uomo e marionetta.

E’ la realtà tragicamente derealizzata nel vuoto ed il ritorno del rimosso. E’ ipercitazionisticamente phonè alla Carmelo Bene, di cui Latini sa usare tutti i registri vocali fino al brivido … spezzati, crescendi in acuto e basso sospirato … tristezze oceaniche. Pinocchio porta anche il commento, e le citazioni da Shakespeare, che compare in infinite vesti – ‘La tempesta’ (anche citata nella versione scenica di Strehler, con un velo rosso che vola risucchiato ), Macbeth, Giulio Cesare, Amleto nelle parole del figlio del re di Polonia, Romeo e Giulietta. L’hanno detto tutti. E forse sono anche postmodernamente troppe, pur avendo la precisa funzione di non lasciarci mai completamente identificare, né nel rilassamento farsesco, né nel controcanto tragico melanconico di Pinocchio (per inciso Collodi è citato anche nella mano a zampa di gallina del complice e poi traditore di Ubu, che ricorda il moncherino del gatto collodiano).

L’hanno detto tutti i critici. Latini cita e iper-cita. E vorrei aggiungere altre citazioni da Shakespeare e dai linguaggi del teatro. Intanto beffardamente sposta il luogo del re vendicatore dalla Russia dello zar ad un caricaturale oriente da samurai, con un re samurai ieratico e iracondo, a scatti ginnico marziali, a torso nudo, e una regina floreale e danzante. Una farsa del terzoteatrismo ginnico gestuale, a cui fa da corollario lo scheletrino nero che rimane a terra dopo il risucchio del telo rosso (quanti scheletrini nel terzo teatro !!).

E in coda a questo - introducendo così anche l’ipotesi del perpetuarsi del male - rimasto il traditore solo con la regina orientale, si assiste ad una di lei floreale danza di seduzione (Terzo teatro ? Teatro danza ? ).

E’ intrinsecamente farsesca, e denega il proprio linguaggio poetico, se lo si pensa rivolto ad un becero. Ma se contestualizzata al ‘samuraismo’ sembra citare il Re Lear nella versione rovesciata di Kurosawa (Ran), con la sua crudele donna-volpe.

Insomma tutto in Latini diventa orgiastico ipersegno, attraverso la decostruzione per citazione di tutti i registri e tutti i linguaggi.

Tutto è citato. Tutto è vero. Nulla è vero. Il vuoto ci attanaglia in dissolvenza, nel suo barocco ‘troppo pieno’. E ci prende il sottile sospetto della coscienza, dopo lo sganasciarsi farsesco, nell’horror vacui di una magistrale derealizzazione, che viaggia tra Carmelo Bene e Kantor.

 

Scheda tecnica

UBU ROI, di  Alfred Jarry, dal 4 al 7 febbraio 2016 Sala Giancarlo Nanni, Fortebraccio Teatro.1, adattamento e regia Roberto Latini, musiche e suoni Gianluca Misiti, scena Luca Baldini, costumi Marion D'Amburgo
luci
 Max Mugnai.

Con Roberto Latini, e con Francesco Pennacchia, Padre Ubu, Ciro Masella, Madre Ubu, Sebastian Barbalan, Regina Rosmunda/ Zar Alessio, Marco Jackson Vergani, Capitano Bordure/ Orso, Lorenzo Berti, Re Venceslao/ Spettro/ Nobili, Guido Feruglio, Principe Bugrelao, Fabiana Gabanini, Palotini/ Orsa/ Messaggero.
Direzione tecnica
 Max Mugnai, collaborazione tecnica Nino Del Principe, assistente alla regia Tiziano Panici, cura della produzione Federica Furlanis, promozione e comunicazione Nicole Arbelli, foto Simone Cecchetti.
U
n progetto realizzato con la collaborazione Teatro Metastasio Stabile della Toscana.

 

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