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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Passi di danza senza lampi. Stein dirige Pinter

 

Già nel 1989, quando andai a vedere il Tito Andronico’ di Shakespeare, mi vi recai mosso dall’entusiasmo, pensando alla fama registica di Peter Stein. Non vi trovai tuttavia gli ardimenti spazio-scenici per cui Stein andava famoso, bensì una regia tradizionale e statica, resa ancor più modesta dalla recitazione stentorea ed impostata di Raf Vallone, che doveva incarnare l’orrore dello zio di fronte alla nipote mutilata. Un pezzo che stroncai in diretta con una sonora risata dal loggione. Mi consolai pensando che non era più la mitica Schaubühne berlinese, e che Raf Vallone non era Bruno Ganz. Stein aveva probabilmente dovuto fare dei compromessi con l’establishment italiano.

Dunque è con residuale entusiasmo riparatorio che mi sono accinto alla visione del suo Pinter - ‘Il ritorno a casa’ (Teatro Vascello – Roma, marzo 2015) - incontrando però anche questa volta una sostanziale delusione. Anche qui, pur non essendo l’insieme spregevole (come poi dirò), lo stesso impianto tradizionale e statico. Ci sarebbe da pensare che vi sia qualcosa di incomprensibile nella fama di Stein, o che questa sia il frutto di un lontano passato, ormai da tempo tramontato.

La scena, coerentemente alle indicazioni pinteriane, è immutabile, scandita solo da stacchi d’atto con musica e buio. E’ un interno borghese a luce realistica: un divano, una poltroncina ed un tavolino. Un comò. Sul fondo una scala sale al corridoio della zona notte, percorribile a vista. Tutto, come voleva Pinter, si svolge qui, in questo che, più che la stanza della tortura pirandelliana di cui parlava Macchia, sembra una via di mezzo tra un carcere di coatti ed un manicomio.
Pinter infatti – come è tipico del teatro dell’assurdo – ama l’unità di luogo canonica del tragico, quel tragico che affiora, sadico e lento, tra degrado, ironia, grottesco, mistero.

Fedele la scena, fedele il testo recitato. 
Ma la troppa fedeltà talora rischia di tradursi in tradimento.
Dice bene D’ugo (Controluce – N.XIV/11, novembre 2005) che la tematica ricorrente di Pinter è lo “… spazio domestico, metafora di una lotta in cui l’altro non è un uguale, ma un ‘simile’ minaccioso”. E ancora, “Uno dei grandi espedienti è il mistero, il senso di pericolo […] il mistero della vita, con i suoi pericoli, le sue minacce […] l’esperienza cancellata deflagra con tutta la sua forza devastante”.

Ma dove si sente, nella recitazione che abbiamo visto, l’incombere della minaccia, il devastante deflagrare? Paolo Graziosi (il padre) è un abile e sdutto vecchiettino perverso, che oscilla tra il burbero comico goldoniano e la macchietta gestuale. Intendiamoci. Abile. Ma anche il degrado e la violenza si trasformano solo in comico (come testimoniano le eccessivamente frequenti risatine di un pubblico da sit-comedy), in una ironica alternanza di imperturbabilità quotidiana (nulla è successo) e fulminanti scoppi di degradata violenza fisica e verbale. Più che sul tragico la scelta va sul grottesco quotidiano. Una scelta lecita, ma ‘minore’.

Eppure di violenza e minacciosità ce n’è molta. E’ un testo torvo, che avrebbe meritato toni espressionistici avanguardistici, astrazioni, deformazioni. Nell’impianto scenico (luci, musiche, assetto spaziale) o nella recitazione. E’ un testo che chiede di essere ‘violentato’, come violentati costantemente sono tutti i protagonisti.
Ripassiamoci la storia, forse non a tutti nota. Un vedovo anziano (Graziosi, alias Max) convive con due figli falliti; un debosciato dandy da divano, disoccupato (Lenny), e un impiegato dell’aviazione (Joey) dedito fallimentarmente alla box. Un coatto sessualmente frustrato e forse impotente, rozzo animalesco, sempre in soggezione davanti agli altri due. Max e Lenny si maltrattano a parolacce, polemizzano, smielano e si blandiscono, in alternanza di posizione up-down.
Ospite fisso è uno zio anziano (Sam ), zitello e pudico, il cui unico orgoglio è la sua vita da chauffeur, e che Max maltratta, dandogli del fallito, socialmente, sessualmente, economicamente.

E poi c’è la coppia che arriverà in visita. Il figlio maggiore, Teddy, filosofo di successo e padre di tre figli, e sua moglie, Ruth, annoiata moglie di un uomo sessualmente passivo e astratto, e poi preda predatrice di un gioco di sesso collettivo familistico. Sarà la puttana di casa, la mantenuta, colei che si prostituisce per mantenerli, consenziente dopo pallida ribellione il marito, che se ne andrà salutando con affetto, come se niente fosse successo. Del resto lui è un filosofo: “Voi siete solo oggetti. Vi muovete … e basta. Vi vedo. Vedo quello che fate. Sono le stesse cose che faccio io. Ma voi vi ci perdete dentro. Non riuscirete a coinvolgermi.”

Non innocente dunque ! Solo evitante. 
E non basta. Da discorsi e memorie di Max (ma indirettamente anche dello zio, che si confessa voyeur del di lei adulterio con un amico di Max ) emerge una visione della defunta moglie come una puttana, e come puttana Max apostrofa Ruth al suo arrivo.

In sostanza una famiglia di degrado sado-maso, dove tutti sono strumento degradato di tutti, e nessuno individuo, ma ‘cosa’, nell’invischiamento senza svincolo.
La donna è angelo materno, puttana, vampiro (secondo la miglior dissociazione edipico misogina di freudiana memoria), e circola il fantasma dell’impotenza. Tutti calpestano tutti.

Comunque, tornando in scena, accettato il registro grottesco, anzi, un po’ in minore, da vaudeville macchietti stico, su questo piano tutti gli attori se la cavano benino.
L’unica che spicca un pelo verso un altrove, anche se un pizzico calcata nel posturale, è Arianna Scomegna (Ruth), brava a graduare i passaggi dal neutro borghese all’ostilità rigida, all’improvviso tracimare nella perversione, a capello sciolto e voce roca.

Insomma. Uno spettacolo buono per ripassarsi il testo, ma non uno spettacolo da ricordare.

 

 

Scheda tecnica

Il ritorno a casa, di Harold Pinter, regia Peter Stein. Traduzione Alessandra Serra, con Alessandro Averone, Paolo Graziosi, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, Elia Schilton, Arianna Scommegna; scenografia Ferdinand Woegerbauer, costumi Anna Maria Heinreich.

Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Spoleto56 Festival dei 2Mondi. Presentato dal Teatro di Roma in collaborazione con Fondazione Romaeuropa

 

 

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