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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Tra delirio e regia. Su ‘Me Dea’, di Marco Palladini

 

 

Dopo 23 anni Palladini ha deciso di riprendere in mano (spazio Aleph, Roma maggio 2014) il suo ‘Me Dea’, una magmatica riscrittura, che prosciuga quasi del tutto le altre voci della tragedia greca nel dilagare monologico della furia menadica e maniacale dell’amore tradito, in un deliro psichico venato di qualche accento nietzschiano e heideggeriano, con accenni junghiani filtrati dall’immaginario del libro tibetano dei morti, del ‘Bardo Todol’.

Tutte ascendenze citate nell’exergo, anche se la vera tramatura, l’architrave dell’intensità medeica, è la (sempre dichiarata) filigrana senechiana.

Meno pertinente ci pare l’accenno (Paolo Carlucci – ‘Le reti di dedalus’, luglio 2014) al teatro didattico tedesco: Brecht, certo molto frequentato da Palladini, e Christa Wolf (‘Medea.Voci’, … per altro un romanzo, che al massimo può fornire l’allusione alla dilatazione ‘vocalistica’).

Nel testo di quest’ultima infatti Medea appare solo vittima ‘etnica’, e persino l’infanticidio non è opera di Medea, ma della comunità.

Piuttosto forse aleggia il fantasma di un’altra passione intellettuale palladiniana, ovvero l’universo sadiano e il suo culto della naturalità crudele.

Se tuttavia il testo, come vedremo, si muove nell’ottica della ‘regia di un delirio’ - dove la crudeltà della natura s’indìa e si fa carne da macello del destino - qui la novità sta nel farsi Palladini regista di se stesso (come ormai da tempo usa – regista e performer).

Si tratta allora di vedere se la ‘regia della regia’ esalta o attenua il ‘delirio’ del testo.

Nel ’91 ‘Me Dea’ era stato performato dai Kripton. Purtroppo non ho visto quella versione, ma sarebbe interessante verificare fino a che punto la loro tecnica di amplificazione elettronica lo abbia influenzato, come performer in generale, e qui come regista. Tutto il testo infatti nella sua regia vive di sdoppiamenti e moltiplicazioni vocali. Due sono le attrici in scena, la ‘bianca’ e la ‘nera’, per abito di scena e per registro vocale e recitativo. Ma le voci sono moltiplicate ulteriormente dall’inserto di quella di Palladini, scomposta e virata al computer (‘Parole mutanti’composizione elettronica di Massimo Biasoni ). Fili di straniamento corrono sulle sonorità elettroniche e ‘ambient’ dei Popol Vuh e di Eno-Fripp (‘The equatorial stars’), e la percussività del testo è amplificata dai ‘Tambours du Bronx’.

Una percussività che è una delle doti ‘virali’ di Palladini, e in particolare di questo testo, grondante fonicamente e ritmicamente, e che gioca abbondantemente su climax iterativi.

Preceduta dal lamento per il destino incombente da parte dei figli (Palladini è il primo a dar loro voce scenica), Medea irrompe subito come un culmine di scatenamento attivo, di ibris vendicativa (azzerato totalmente il lamentoso accento in difesa verso l’esilio minacciato da Creonte, lamento centrale in Euripide, e pure accennato in Seneca)

 

Me dea. Lo sarò […] Un giorno […] sarà anche troppo […] vedrà […] Aggredirò […]

aggredirò gli dei […] Farò crollare […] muoverò guerra […] Spremerò le sacerdotette /

[…] Consumerò […] tutto rovini con me[…]

È bello divenire valanga mortale, / travolgere gli altri nella propria / inarrestabile caduta. /

Li annienterò. Li annienterò […]“

 

Sono il ritmo e la ‘Medea strega’ di cui il testo è debitore a Seneca, che così apre il suo testo,

Caos dell'eterna notte, regno / che è agli antipodi del cielo, / e voi, Spiriti del male, /

e tu, Plutone, signore del regno dolente, / e tu, Proserpina, signora /che un amore più fedele ha rapito: /

io vi prego con la mia voce funesta.

ma che in Palladini crescono in violenza e parossismo per l’accavallarsi dei verbi ingiuntivi, e con il contributo di qualche suo tipico ossimorico neologismo spregiativo de-sentimentale ( ‘sacerdotette’).

Si diceva del delirio. Subito si dichiara il delirio di onnipotenza

Me dea. Lo sarò

a cui esita il mix di delirio narcisistico

Sono qui [..] Io sono/della stirpe del sole

e di gelosia.

Ma appunto, più che di gelosia, narcisistico, con la tipica corsa agli opposti che innerva l’amore assolutistico, e dunque narcisista, dei ‘borderline’. Ed ecco allora la svalutazione totale dell’oggetto

“… eroe inventato per cieco ardore ”

ed il virare tipico di eros in tanatos, secondo una pulsione di morte delirante, che razionalizza il proprio delirio in filosofia

“… bello divenire valanga mortale, travolgere gli altri […] Li annienterò”

[…] Nobile figlia, il tuo corpo è un corpo mentale. / Seppure decapitato e squartato è incapace di morire. /

Il tuo corpo è della natura del Vuoto. / Non hai bisogno di spaurare: i Signori della Morte /

altro non sono che tue allucinazioni.”

come appunto è nel ‘suicidio narcisistico’, che pensa di preservare col suicidio la perfezione del ‘vero Sé grandioso’ dalla ferita del mondo e della relazione.

E non importa che la dissacrazione dell’eroe, di brechtiana memoria, sia condivisa anche da Giasone

Il dovere dell’eroe? Una trappola. / [ …] Esecro questo destino […] / ad uso e consumo

degli imbrattatori di carte […] / […] L’eroe di carta in carne e ossa piange i figli”

E’ critica modernistica, ma è anche la denuncia della costruzione eroica delirante di Medea, delirante, anche se giustificata sul piano di realtà.

Si parlava di ‘regia testuale’ del delirio, cioè di come l’autore lo faccia muovere, crescere, decrescere, e di quanto vi aderisca. Se dovessi dire, credo che proprio il coraggio di Palladini di fare esplodere il delirio al massimo, di centralizzarlo, sia la premessa per mostrarne da un lato la debolezza implosiva intrinseca, dall’altro di accentuarne la negatività all’esterno.

‘Me dea’ non è vittima: fa vittime !

Naturalmente Palladini è ambivalente, e aderisce a tutte le mitologie sull’eros come forza primordiale, dai 68ismi a Kerouac, a Pasolini (si noti però insieme ribelle e sacrificale), a Sade. Ed è nichilista il giusto, tra Nietzsche e Heidegger.

Ma colpisce che ad aprire i giochi siano le voci dei figli. Palladini infatti da tempo - per il tramite di Kerouac e Pasolini, e del bilancio sugli anni ‘70 - va facendo i conti col padre… E forse ultimamente con la madre (ma magari ora direi, guardando questo incunabolo … da tempo). Insomma con la sua ‘figlità’, tra crocefissione ed eros ribelle, pasolinianamente.

Non è un caso quindi che la madre che compare qui sia una madre che i figli li divora, che non li vede; e se li vede è solo in quanto ferita ulteriore, all’interno della sua distruttività, e non come persone autonome?

Anche Giasone del resto non si pone come antagonista, ma come vittima delle cose.

Né è persona, per lei. Semplicemente qualcuno a cui ‘non farla passar liscia’, ma per orgoglio, non per amore di lui; per l’orgoglio della dignità offesa del grande eros autocentrato di Medea.

Lei non deve diventare ‘oggetto di risa e di scherno’. Non vi è in lei la mancanza di lui, come invece nei classici. Non lo esorta a fuggire con lei.

Non a caso la sua non è una tragedia personale. La definisce, rivolgendosi ai figli, ‘tragedia cosmica’, e lei deve ‘liberarsi di ogni attaccamento, lacerare iddio nell’essere’.

Si fa forte, accusando i greci di ‘debolezza d’essere’. Ma subito denuncia la propria debolezza e lo smarrimento. Certo, essere heideggerianamente ‘per la morte’, ma questa ‘ultima solitudine’ è da lei stessa dichiarata ‘felicità di poeta e di folle’.

Di poeta ? Dunque Medea è Palladini, la madre ingloba il figlio, che non può che essere ‘conoscitore di se stesso / carnefice di se stesso’, in un eros solitario e a-relazionale con l’essere e il nulla ?

Ma forse è questa la via. La filigrana del ‘Libro dei morti’ sembra far collimare la libertà dal mondo con l’essere per la morte, con un rovesciamento dell’eterno ritorno nietzschiano in negatività.

 

SEZ.3 - AGNIZIONE DELLE DEITÀ BEVITRICI DI SANGUE

CORO: Nobile figlia, dalla zona Est del tuo cervello / verrà a brillare la Bianca

dea dalla testa di tigre [..] Cinquantotto sono le deità Bevitrici

di Sangue […] visioni spaventose […] le tue stesse forme-pensiero […]

Se avrai paura […] verrai meno […] In illusorie apparenze

si muteranno […] andrai errante nel giorno dell’eterno ritorno […]

Tu Dea riconosciti. “

Ma nel ‘Libro dei morti’ è proprio l’aggressività desiderante incarnata da quella divinità ciò da cui ci si deve staccare, come apparenza che lega al mondo. Dunque Palladini capovolge junghianamente … Solo integrando questi mostri interiori, il lato in ‘ombra’, si può giungere all’individuazione, anche se per qualcuno ciò può passare per la discesa agli inferi della follia e della morte. Per qualcuno purtroppo conoscere se stessi può solo essere la discesa agli inferi dell’acting out, che Medea patisce, e che il poeta, eroe di carta, sulla carta esorcizza.

Mio dolore. Mio dolo. Mia ultima felicità / Ti ho riconosciuto /(Non si deve

prima odiarsi quando si vuole amarsi?) / Io sono il mio carnefice. Io il mio

nemico / Io il mio ignoto. Io il mio enigma / Io il mio male. Io il mio labirinto.

Io la mia follia. / Io la mia menzogna. Io la mia verità. / Io il mio vuoto. Io la mia

luce. / Io il mio io. Io il mio non io. Io il mio dio.”

Dunque dice bene Carlucci quando sinteticamente allude, parlando di ‘concerto dell’io’ , ‘s-brani di sé’, ‘grammatica mito-psichica’, ‘notte della voce’ , anche se sembra manchi l’equazione Medea-Palladini.

Ancora, parla di ‘voci sostanza’, ‘tamburo di memoria’, ‘vox nox’, come ‘coltello di agnizione’.

Scendiamo dunque nella notte della messa in scena, e vediamo ora cosa il Palladini regista aggiunge alla propria regia testuale.

In scena solo due attrici. Una tutta in bianco - orientaleggiante e regale, frivola e sensuale, efferata e bambina - recita, mugola e canta filastrocche ironiche (Nina Maroccolo, di mestiere cantante, ma qui ben prestata al tragico); poi anche lei crescerà, alternando monodie struggenti e sussultorie, a bocca chiusa (mmm) e con parole, a crescendo ondosi e disperati, acuti e ritmati.

L’altra, in nero, Giulia Perroni - esperta attrice performer e poetessa, tornata in scena dopo anni sotto la guida di Palladini - esibisce maschere fisse espressionistiche, tra strazio e scatenamento viscerale e stregonesco, e martella maledizioni, sarcasmo, polemiche, con voce ora cavernosa ora graffiante e dolorante.

Leggono appaiate, frontali, in piedi, stazionarie, scambiandosi frammenti di identità di tutti gli attanti, rendendo plurima ogni identità.

E’ un crescendo rituale per ritmo e scambi, e la dualità vocale e coloristica ben rende – nella loro interpretazione magistrale – gli scontri interiori del testo, dando fisicità e gestualità vocale.

Ma a Palladini non basta la diffrazione vocale dei ruoli, né l’amplificazione data al ‘tamburo della memoria’ dalle musiche che invadono e si sovrappongono. Ci sono aggiunte e duplicazioni testuali registrate che si intrecciano alla recitazione in scena, spesso con ritmi e timbrica straniati, robotici (il coro ?).

All’inizio per es, ‘i cuori dei bambini non conoscono sofferenza’, inserto testuale nuovo, che sottolinea la centralità del loro punto di vista difforme.

Dunque si può dire che Palladini al testo aggiunge l’esplosione dei suoi vettori interni, un’esplosione corporea, sensorializzando il conflitto in ‘corpo vocale’, trasformando il testo in ‘teatro gestuale vocale’, a partire da una paradossale fissità corporea, che aumenta l’esplosione tragica in altre direzioni. Una buona rivoluzione dopo tante accademie post-moderne del gestuale, per un recupero di una gestualità testuale ; ed una possibile via per teatro da camera ‘concertante’.

 

Locandina

‘Me Dea’. Regia e testo: Marco Palladini. Interpreti: Nina Maroccolo – Giulia Perroni. Musiche di : Massimo Biasoni, Tambours du Bronx, B.Fripp-B.Eno, Popol Vuh.

In cartellone a - Roma Centro culturale Aleph – maggio 2014

 

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