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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Invictus. Una meta per la riconciliazione

 

 

 

Invictus

Regia di Clint Eastwood

Con Morgan Freeman, Matt Damon,
Tony Kgoroge, Langley Kirkwood, Patrick Mofokeng

Distribuzione: Warner Bros


 

 

 

 

“Dietro la ruvida maschera che porta, il rugby è un gioco purissimo. Non guardate solo il fango che inzacchera le maglie, o la deformazione delle facce che si abbattono a terra. Non guardate la mischia barbara delle spalle che premono in avanti e delle gambe che puntano il suolo. Non guardate la sua apparente violenza, la frettolosa e goffa traiettoria della palla calciata al volo, la dolorosa commedia del contatto che spezza la corsa. Tutto questo serve solo a ricordarti che sei polvere, e polvere ritornerai. […]”

Giovanni Ricciardi, Ci saranno altre voci

Se si chiede in giro il significato della parola “Ubuntu” è possibile ottenere risposta, specialmente da utenti informatici, perlopiù giovani ed evoluti, dal momento che tale termine di origine africana è utilizzato da un sistema operativo Linux nato nel 2004 grazie a un imprenditore sudafricano divenuto sostenitore del software libero al cui servizio ha posto le sue risorse. Ma Ubuntu s’ispira principalmente a una filosofia basata sulla benevolenza e sul rispetto del prossimo. Un’antica espressione in lingua bantu, infatti, estendeva il concetto a un’etica umanitaria che si traduce più o meno così: “Io sono ciò che sono per merito di ciò che siamo tutti”.

Tuttavia, tali accezioni non risultano ancora completamente esaustive visto che Ubuntu è divenuto, per iniziativa di Nelson Mandela, uno dei principi fondamentali della nuova Repubblica del Sudafrica, assumendo così una decisa valenza politica, nel senso della necessità di unità o di condivisione nel prendere decisioni, e dell’urgenza di una riconciliazione che recuperando le scomode verità del lungo periodo dell’apartheid realizzasse finalmente quella che l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, Premio Nobel per la Pace nel 1984, ha felicemente battezzato come “nazione arcobaleno” (Rainbow Nation), ovvero un modello di convivenza pacifica e civile tra le varie etnie del paese.

Negli ultimi anni, e con una certa difficoltà, Hollywood si sta occupando di questa problematica a lungo dimenticata, o considerata “scomoda”. My Country (2003) di John Boorman, con Samuel L. Jackson, Juliette Binoche e Brendan Gleeson, ha raccontato il lavoro della Commissione di Verità e Riconciliazione (TRC) voluta da Tutu e da Mandela, che ha seppellito, speriamo definitivamente, gli scheletri nell’armadio dei precedenti regimi razzisti e i crimini brutali commessi dalla minoranza bianca. Il colore della libertà (2007) di Bille August, invece, ha descritto con gli occhi di una guardia carceraria (Joseph Fiennes), il lungo periodo detentivo del leader dell’ANC (African National Congress) nelle dure prigioni sudafricane, fino alla liberazione avvenuta nel 1990.

Sugli schermi italiani dal prossimo 26 febbraio, Invictus pone un altro importante tassello per la definizione del mosaico sulla genesi del nuovo Sudafrica. L’attesa per il film va equamente ripartita tra l’interesse per quel monumento vivente del cinema che risponde al nome di Clint Eastwood (79 anni), anche stavolta impegnato sul fronte del razzismo, dopo il riuscitissimo Gran Torino; e per la storia di questa terra meravigliosa e travagliata in cui un uomo straordinario è riuscito a realizzare quella che per molti è ancora un’impraticabile utopia: la rivoluzione democratica non violenta.

La sceneggiatura di Anthony Peckam (suo è pure lo script di Sherlock Holmes di Guy Ritchie), tratta dal romanzo di John CarlinAma il tuo nemico (edizioni Sperling & Kupfer), assegna al carismatico Morgan Freeman i panni di “Madiba” (così è chiamato in Africa Nelson Mandela), all’indomani delle elezioni presidenziali che lo vedono trionfatore e ispiratore della trasformazione del Sudafrica in una federazione multietnica. In quei frangenti di caos e crisi economica, alto era il rischio di una drastica resa dei conti con la minoranza bianca, detentrice dell’85% delle ricchezze del paese. Una guerra civile avrebbe prodotto esiti disastrosi, e ripercussioni negative in tutto il continente nero. Mandela, premiato anch’egli con il Nobel per la Pace nel 1994, comprende allora la necessità di riformare lo spirito patriottico, “africanizzando” i bianchi, ma anche avvicinando le tribù nere alla nuova bandiera adottata dal 26 aprile 1994.

L’occasione è fornita dalla Coppa del Mondo di Rugby del 1995, finalmente assegnata al paese sudafricano dopo decenni d’isolamento dalle competizioni sportive e di esclusione dall’ONU per le note discriminazioni razziali. Mandela si adopera con tutte le sue energie affinché il paese tutto si unisca per sostenere gli Springbocks, il nomignolo con cui sono chiamati gli atleti della palla ovale, e incoraggia personalmente la squadra avvicinando il capitano della formazione, Francois Pienaar (Matt Damon), per convincerlo della vitale importanza dell’evento per la neonata nazione. “One team, one country”(una squadra, un paese) diviene lo slogan che accompagna quell’impresa, ormai non solamente sportiva.

Invictus (Invincibile) è il titolo di un poema scritto nel 1857 da William Earnest Henley, e sovente citato dal Presidente del Sudafrica. Ma gli Springbocks (i “Bokke”, nel gergo locale) non sono invincibili. Esclusi a lungo dalle gare internazionali, non hanno l’esperienza necessaria per imporsi in un torneo così lungo e faticoso. E il rugby in Sud Africa è rimasto essenzialmente uno sport dei bianchi – afrikaner e anglosassoni – perciò detestato dalla comunità nera. Ma durante la cerimonia di apertura del campionato mondiale Mandela scende in campo per augurare buona fortuna ai propri atleti.

Da quel momento la nazionale di casa opera un vero e proprio miracolo inanellando una serie di vittorie, con Australia, Romania, Canada, Samoa Occidentali e Francia, che scatenano l’entusiasmo dell’Ellis Park Stadium di Johannesburg e del pubblico televisivo. La finale si gioca contro i mitici All Blacks neozelandesi, famosi nel mondo per la “Haka”, la tradizionale danza propiziatoria dei Maori, che mette i brividi agli avversari prima dello scontro. È qui che la regia si concede all’epica sportiva intercalando le immagini della partita ai volti dei tifosi sugli spalti, e alternando le riprese della città ricca a quelle delle bidonville.

Alla fine, però, gli Springbocks avranno la meglio, seppur per un soffio (15 a 12 il risultato finale), e Mandela, indossando il berretto e la maglietta verde-oro dei Bokke, potrà consegnare la prestigiosa Web Ellis Cup nelle mani di Pienaar. Nel catino dello stadio, nelle case e per le strade tutta la popolazione, bianchi e neri, sono pervasi da un’irrefrenabile gioia: per la prima volta da molti decenni, in Sudafrica batte un unico cuore. Eastwood pare partecipare a questo pacifico abbraccio tra le genti (42 milioni) che vivono in questo vasto paese. Ma non disdegna di descrivere alla sua maniera, alcuni esemplari ritratti virili, come quelli dei componenti della scorta armata del Presidente (un’assortita squadra di neri e bianchi), né di indugiare sull’amicizia e il reciproco rispetto tra la guida della nazione africana e l’alfiere del team di rugby.

Rispetto che raggiunge il culmine nella sequenza in cui gli Springbocks visitano il carcere di Robben Island, dove Mandela passò il periodo più lungo, e difficile, della prigionia: quando Pienaar entra nella cella dove era stato rinchiuso il leader di tutti i sudafricani, arriva a percepire la sofferenza, e la grandezza di quell’uomo; in quel luogo ricorda i versi di Invictus, così cari a Madiba, e adesso anche a lui. Toccante pure la scena in cui gli stessi atleti, girando per le township malfamate, giocano a rugby con i ragazzini di colore.

Il pathos e la commozione che percorrono il film vengono accentuati dallo sfondo musicale che propone sound etnico, jazz e cori a cappella (gli Overtone) in un mix veramente suggestivo. Eastwood costruisce un’opera illustrativa di grande forza emotiva che veicola un messaggio di tolleranza e pacificazione, di comprensione e reciproca accettazione in un contesto di confusione e diffidenza per ogni iniziativa politica. La messinscena, quindi, si svolge su un impianto prevalentemente realistico, e a tratti didascalico, che non solo potrà raggiungere facilmente il vasto pubblico, ma potrà essere facilmente utilizzato come strumento didattico, educativo e interculturale d’indubbia efficacia per ogni grado e ordine di scuola.

Lo sport come laboratorio della democrazia (si veda l’approfondimento che segue) costituisce il tema prevalente di questo biopic che illustra il genio e la lungimiranza di un uomo che sapeva ottenere il meglio da ogni persona. Qualcuno chiamava tale capacità fuori dal comune “la magia di Madiba”. Noi preferiamo piuttosto pensare alla validità del “metodo” che lo stesso Nelson Mandela così sintetizzava: “Se non potete parlare alle loro menti, parlate ai loro cuori”.

Sport e politica: la gara per la pace e per i diritti umani

Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, ha il potere di unire il popolo, come poche altre cose fanno.”

Nelson Mandela

È difficile trovare qualche analogia tra la situazione del Sudafrica all’indomani della liberazione di Nelson Mandela e l’Italia uscita dolorosamente dal secondo conflitto mondiale, tuttavia, un particolare evento, a carattere sportivo, accaduto nell’immediato dopoguerra, accomuna il destino del nostro paese a quello della Repubblica Sudafricana, pacificata, come si è detto, anche grazie all’importante kermesse rugbistica mondiale.

Intendiamo riferirci all’attentato subito da Palmiro Togliatti, allora segretario del PCI, l’11 luglio 1948, avvenimento che aveva provocato una grave tensione politica e sociale (incidenti e morti in molte città italiane durante violentissime manifestazioni), e che rischiava di sfociare in una disastrosa guerra civile. Grazie al cielo, Togliatti sopravvisse, aiutando non poco a placare gli animi. Inoltre, è opinione comune che Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti, leader della DC, avessero telefonato a Gino Bartali, il campione di ciclismo impegnato in quei frangenti nel Tour de France, per incitarlo, chiedendogli un’ulteriore sforzo agonistico che facesse sognare i tifosi e potesse allentare la tensione di quei giorni, rasserenando, così, il clima.

“Ginettaccio”, a dispetto dell’età (34 anni suonati), di una squadra mediocre, e dell’astio proverbiale dei francesi nei confronti dei nostri (la canzone di Paolo Conte dedicata al corridore toscano, ne ha consolidato il “mito”) realizzò un’impresa leggendaria recuperando ben ventuno minuti di distacco da Louison Bobet, s’impose sull’Izoard e nella tappa successiva, ottenendo così la maglia gialla che indossò fino a Parigi. La formidabile vittoria suscitò un tale entusiasmo che senz’altro contribuì a distogliere l’attenzione dall’attentato di cui era stato vittima il primo esponente del PCI.

Esempi di questo genere, fortunatamente, non sono infrequenti; talvolta difatti gli eventi sportivi hanno fatto da apripista ad azioni distensive o all’inizio di importanti relazioni politiche. Com’è avvenuto, ad esempio, nei primi anni Settanta, allorché la squadra di tennis da tavolo degli USA fu invitata nella Cina comunista, a quel tempo chiusa a ogni relazione esterna con gli americani e con gran parte del mondo occidentale, inaugurando un ciclo di colloqui che porteranno allo storico incontro tra Mao Zedong e l’allora Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon. Si arrivò, dunque, a quell’insperato risultato grazie a quella che - l’evento è stato poi ripreso, debitamente rielaborato, nel film Forrest Gump - venne universalmente riconosciuta come “Diplomazia del Ping Pong”.

In tempi più recenti, anche Barack Obama pare aver intrapreso questa strada con l’invio della nazionale di badminton (da noi più conosciuto come volano) femminile in Iran al fine di aprire un dialogo ufficiale fra due nazioni che non hanno relazioni diplomatiche dal 1979. Inoltre, la prossima tornata dei Campionati Mondiali di Calcio, che si disputeranno per la prima volta in Africa, e nella fattispecie nel paese di Nelson Mandela, sembra offrire al martoriato continente nero un’ulteriore opportunità – morale e culturale, civile ed economica – di inserimento nella comunità globale. È indubbio, insomma, che lo sport sia stato, e sia tuttora, un importante veicolo di valori positivi.

Se poi puntiamo lo sguardo sull’antichità, ci sovviene quanto avveniva in Grecia in occasione delle Olimpiadi. Ogni quattro anni gli Elleni deponevano le armi (ekecheiria), arrestavano qualsiasi contesa per consentire ai migliori atleti (solo maschi, e di lingua greca) di sfidarsi nella corsa e nel pugilato, nel salto in lungo e nel lancio del giavellotto, nel pancrazio (un misto di lotta e pugilato) e nelle gare equestri. Questi armistizi non riguardavano solamente i Giochi di Olimpia intitolati a Zeus, ma pur con altri limiti temporali concernevano la città-santuario di Delfi con i Giochi Pitici, dedicati ad Apollo, che erano più antichi delle Olimpiadi, e prevedevano anche performance poetiche e musicali, i Giochi Istmici di Corinto, consacrati a Poseidone, e assai popolari, i Giochi di Nemea, biennali, ancora in onore del sovrano di tutti gli dei.

Anche le Olimpiadi moderne, fortemente volute da Pierre De Coubertin, avevano lo scopo di incoraggiare la tenzone agonistica in una società pacifica, nel pieno rispetto dell’umana dignità. In tempi ancora più recenti, invece, le competizioni sportive a livello mondiale hanno recuperato tale dignità in favore dei diversi e degli emarginati: sono state pertanto istituite le Olimpiadi per i disabili e i campionati mondiali per immigrati.

Non possiamo, a questo punto, omettere di citare almeno qualche episodio che ha visto come protagonisti atleti di primissimo piano che, involontariamente, spontaneamente, o per presa di posizione, hanno manifestato le proprie idee in una vetrina così vasta e luminosa quale quella olimpica. Su tutti le gesta di Jesse Owens, campione USA, e soprattutto, nero di pelle, il quale, vinse ben quattro medaglie d’oro nelle quattro discipline più prestigiose dell’atletica (100 e 200 m., salto in lungo e staffetta 4x100) nello stadio di Berlino, al cospetto di Adolf Hitler, suscitando l’entusiasmo di centomila spettatori e lo scorno del Fuhrer, sicuro di celebrare agli occhi del mondo la superiorità della razza ariana nelle trionfalistiche Olimpiadi del 1936, consegnate al mito dalle immagini di Olympia, capolavoro della propaganda – non solo – nazista di Leni Riefenstahl.

Un’altra vicenda emblematica capitata nel 1968 alle Olimpiadi di Città del Messico sta a testimoniare come una prestazione sportiva possa essere caricata di rilevanti significati politici. Alla premiazione dei 200 m. piani il podio presentava due afroamericani: Tommie Smith e John Carlos (1° e 3° classificato rispettivamente). Al momento dell’inno USA, i due velocisti - senza scarpe, calze nere ai piedi - alzarono il pugno coperto da un guanto nero, simbolo del Black Power, e chinarono il capo, contro la discriminazione razziale, e per l’emancipazione dei neri d’America. Anche l’australiano Peter Norman, giunto 2° al traguardo, durante la premiazione espose un distintivo a favore dei diritti umani.

Più di recente, alle Olimpiadi di Pechino del 2008, due atlete, la georgiana Nino Salukvadze e la russa Natalia Paderina, un tempo compagne e amiche nella squadra nazionale sovietica di tiro a segno, giunte sul podio a ritirare il bronzo e l’argento per la specialità della pistola da 10 m., si sono abbandonate a un abbraccio commovente, proprio nei giorni in cui i loro paesi d’origine erano impegnati in un’insulsa guerra fratricida. Ma l’amicizia può - deve - essere più forte d’ogni conflitto, perché la competizione sportiva presuppone la cessazione di tutte le guerre tra i popoli, e il superamento delle divisioni tra gli atleti d’ogni bandiera.

Allo sport è quindi demandato il compito di contribuire su scala planetaria alla civilizzazione della società, promuovendo la parità razziale e il fair-play, la democrazia e le pari opportunità, il progresso economico-culturale e le condizioni igienico-sanitarie di milioni di persone. Molte avventure sportive sono oggi ricordate come vere e proprie imprese epiche; ed è giusto diffonderle come tali, perché pur tra mille difficoltà e contraddizioni, quello dello sport rappresenta comunque un mondo più aperto e paritario di quello reale, e al proprio interno è di sicuro più avanti nell’abbattimento delle storiche barriere di classe sociale, religione, sesso, età e condizione fisica, che invece, costituiscono ancora oggi un grave problema per milioni di individui…

 

Invictus

Dal profondo della notte che mi avvolge,
buia come il pozzo che va da un polo all’altro,
ringrazio tutti gli dei per la mia anima indomabile.

Nella morsa delle circostanze,
non ho indietreggiato, né ho pianto.
Sotto i colpi d’ascia della sorte,
il mio capo sanguina, ma non si china.

Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime
incombe, ma l'orrore dell’ombra,e la minaccia degli anni
non mi trova, e non mi troverà, spaventato.

Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la pergamena,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

William Ernest Henley

 

 

ESTRATTO da PRIMISSIMA SCUOLA n.1-2 febbraio 2010

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