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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

Fogli e Parole d'Arte

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Satyricon. La malinconia critica di Verdastro

 

 

La scena è spoglia, vuota. Solo due panche. Alle pareti, in alto, dei quadri-filmato in piano sequenza di alcuni attori, in gigantografia. Sono tutti immobili, e danno un senso di viva attesa, soprattutto quando ci si accorge - dalle espressioni in movimento e tensione di quello frontale (Alessandro Schiavo) - che non sono fotografie. Sembra che aspettino il loro turno di entrare in scena. La magia però si dissolve. Le luci si accendono, e svanisce l’immaginario in una piatta scena a giorno, che non rende giustizia, in apertura, a quello che sarà il collage autoriale e multidisciplinare imbastito sul ‘Satyricon’ di Petronio da Verdastro (ideatore, regista e attore dello spettacolo) e dalla sua ‘Compagnia Verdastro-Della Monica’. Ma del resto la scommessa è alta, ed è buone regola di ogni spettacolo che si vada a crescere, cosa che in una performance così lunga non si può ottenere con un ‘alto’ costante, wagneriano, ma solo modulando i registri, come effettivamente poi sarà. Gli episodi che infatti vengono portati in scena questa volta al teatro ‘Vascello’ (Roma, 13-29 aprile 2012 - SATYRICON UNA VISIONE CONTEMPORANEA) sono ben cinque, cioè per la prima volta l’intero di un lavoro laboratoriale sgranatosi dal 2008 ad oggi, e che vede il pretesto di Petronio ibridato con linguaggi ed un discorso moderni, sia sul piano scenico che su quello autoriale. Verdastro infatti ha commissionato a diversi drammaturghi contemporanei (e montato) delle riscritture attualizzanti di alcuni episodi del testo latino, senza per altro rispettare la sequenza lineare (per esempio il primo episodio sta nel romanzo quasi alla fine).

Gli episodi sono rispettivamente : I – La pinacoteca di Eumolpo (testo di A.Tarantino, e prologo di L.Scarlini); II – Tra scuola e bordello (testo di M.Palladini); III – Quartilla (testo di L.Russo); IV – La cena del nulla (testi di M.Verdastro e A.Macaluso, con 2 monologhi, di M.Barile e L.Russo); V – Nell’anno di grazia post naufragium (testo di L.Prosa).

I registri su cui Verdastro gioca la sua tessitura sono più o meno quattro: il collante, in funzione di variazione ed alleggerimento, nonché di critica e verfremdung brechtiane, è quello circense fumettistico (come chiosa bene Giovanni Ballerini, a proposito dell’episodio di ‘Quartilla’), con virate sessuo cabarettistiche fortemente gestuali; emerge poi a tratti il patetismo vittimistico sentimentale, che fa da anticamera al registro maggiore, quello della desolazione tragico beckettiana, tra malinconia esistenziale e critica sociale. Il registro più debole è invece dove la critica ed il filosofema esistenziale si convertono in moralismo e predicatorietà pedagogici.

E’ il caso del primo, e talora del secondo episodio, per altro assai più robusto nella struttura e nelle soluzioni. Il terzo episodio invece, che fa da ouverture al registro comico critico, pur con delle buone trovate, perde a nostro avviso il treno che avrebbe potuto portarlo all’ambivalenza tragica, che è il vero sottotesto dell’ossessione sessuo-alimentare inscenata in questo mondo svaloriale e smarrito – tormentatamente e smemoratamente ‘orizzontale’ - specchio letterale e torvo del nostro.

Ma andiamo con ordine. Il primo episodio oscilla in modo un po’ piatto e statico tra momenti predicatorio pedagogici e degrado sessuale (la custode del museo che lo presenta la pubblico borbottando ed esibendo calze a rete, ed il poeta pedagogo - un Verdastro tra abili mossette e recitazione alta impostata – che a prediche pacifistico artistiche al giovane Eumolpo intercala momenti di greve seduzione pederastica). La morale è che solo arte ed estetica, ormai decadute, potrebbero rimediare alla bestialità umana, sintetizzata freudianamente (aggiornando Petronio) nel nesso ‘denaro – merda – guerra’, il cui simbolo sono, con un gioco di parole, “quelle troie di guerre”, di cui la guerra di Troia è il prototipo. In questa stasi tuttavia ogni tanto il tono sale, quando dal discorso si passa ad alcune intelligenti trovate registiche. E’ il caso della performance del pittore Silvio Benedetto, che su un telo calato a fondo scena improvvisa un quadro, dove un’insanguinata e guttusiana testa di cavallo vira gestalticamente al volto di Elena (ancora una volta sesso e guerra). Il momento veramente bello però, culminante, è quando l’invettiva su guerra e decadenza della sacralità dell’arte, rivolta nel buio al pubblico, viene raddoppiata da un coro di attori-ombra che scendono lentamente dalla scalinata, raggiungendo effetti di tragica sommessa malinconia.

Nel secondo episodio Palladini reinterpreta in chiave satirico espressionistica la scuola di retorica di Agamennone, che diventa una ‘clinic’ glottologica per curare i disturbi di linguaggio dei ricchi giovani debosciati (incarnati da un gruppo di studentelli sciamannati e fornicatorii che parlano con uno starnazzare da voliera il linguaggio contratto degli sms). La cura dovrebbe decostruirli e ricostruirli, dice un Agamennone diventato manager del disagio, rispondendo alle accuse dei due ragazzi di vita (l’ingenuo Encolpio e lo smaliziato Ascilto, ma entrambi vittime sociali periferiche), e a questo assunto lacaniano aggiunge un’allusione alla pasoliniana teoria sull’omologazione, ma con distanziante spocchia intellettualistica di fronte agli autentici pasoliniani che lo fronteggiano sfigati e smarriti (a riprova che anche Pasolini può essere usato contro di lui). Ad apertura di scena, e verso la fine fa da coreuta nazionalpopolare una caricaturale maga vestita come una carta dei tarocchi, e dalla gestualità rigida e pupara: una specie di becera sacerdotessa del sesso mercificato, che parla un russo da negro ignorante, e con una comicità d’en bas volutamente televisiva e stridula. Invitata a far loro le carte, ma in realtà ad accoppiarsi, fa da preludio ad un trenino da avanspettacolo dove numerosi attori s’aggirano esibendo grandi cartelli stradali intitolati alle anatomie del sesso (culo, tette, etc). Parodia insieme della mercificazione e del linguaggio impoverito che ‘ci parla’, e segnaletica volgare di pericolo, via libera, senso vietato: insomma l’alfabeto della copula. Poi, con una falsa bonarietà arriva un controcanto dantesco, dove una puttana in rosa recita - in un testoriamo pastiche tra il bolognese e il lombardo e un arcaico italiano latineggiante - una allusione alle tre fiere infernali della ‘Commedia’. L’inferno però non sembra essere tanto il peccato, ma l’esclusione dal denaro che vi dà accesso. Conclude infatti, “Lassò onni speransa.. Se non hai soldi… al massimo un bonus per un pompino!” Da quanto fino a qui emerge che sicuramente una delle doti di Palladini è certo la capacità di giocare sulla continua decostruzione di ogni assunto nella contraddizione che comportamentalmente e nella realtà effettuale lo invalida. E forse è per questo che ha voluto connotare con il melenso registro d’un romanesco ormai inesistente - ingenuo, nostalgico (quello del Belli) – l’ingenuità lamentosa di Encolpio e la disinvoltura pseudo cinica di Ascilto, anche se francamente elevandoli ad un fraseggiare politicizzato e moderno poco proponibile al loro livello popolare, tra sogno di felicità e riscatto, lamento sul ‘precariato’ (sic !), e la filosofia asciltica sulla società capitalistica. Insomma gli slittamenti predicatorio-ideologici di cui dicevo.

Un’altra dote sicuramente poi del nostro è non soltanto la capacità mimetica su più registri linguistici (non sfugga addirittura ad un certo punto un aggettivo alla Gianni Toti.. ‘multiverso’), ma quella di portare questi registri al cozzo e al concerto, fotografando così appunto il ‘multiverso’ universo sociale nelle sue contraddizioni. C’è da dire poi – essendo Palladini l’unico che mi ha concesso la grazia e la fiducia di esaminare il copione – che dal suo lavoro emerge la caratteristica felicemente ‘in progress’ della regia - a collage e stratificata nel tempo - messa in opera da Verdastro. E’ difficile dire quanto sia di Palladini, e quanto di co-regia, ma sia la maga che la puttana in rosa mancano nel copione originale, e pure il coito romantico omoerotico, con corollario di gelosia, che conclude l’episodio, e fa da ponte al III episodio. Belli poi sul piano scenico sono i due prologhi visuali. La ‘clinic’ si apre con un fondo scena a tutta parete dove scorre in bianco e nero un pezzo di periferia moderna, col sottofondo discreto di un contrabbasso, e si chiude, nel buio, con un rosso fuoco a tutto schermo sui cui scorrono frasi poetiche su una ardente notte d’amore, introducendo così l’ultimo pezzo dei due amanti, che letteralizzano l’ossessione della corporeità omoerotica nel ‘tutto nudo’ degli attori. Questo del raddoppio in cinematografia ‘onirica’ è una cifra che ritorna anche a chiusura del V episodio, ma qui è cornice dominante, ed è difficile dire se sia opera del regista, della scenografa (Stefania Battaglia), o se non ci sia anche un contributo palladiniano, essendo questo un stilema ricorrente nei suoi due spettacoli pasoliniani. Comunque funziona.

Il terzo episodio, scritto in un volutamento sciatto e televisivo latino maccheronico da Letizia Russo, ha una chiara funzione di alleggerimento comico, ma anche quella – nella sequenza del collage scenico – di introdurre il registro della paradossalità. Sostanzialmente i tre protagonisti vengono puniti per il peccato di voyeurismo sessuale, e costretti dalle sacerdotesse di Priapo ad una maratona di sesso selvaggio (previo esorcismo della loro temporanea impotenza)che è anche l’iniziazione al sesso di una dodicenne. Guida le danze la sacerdotessa Quartilla (una vivace Tamara Balducci), mentre un corifante sciabola la scena con un chilometrico fallo di gomma, e un Ariel capovolto (il bravissimo Giuseppe Sangiorgi), un Boy George a ventre nudo, e con bombetta rosso fuoco, in jeans e bretelle sado, danza mossette compiaciute. La scena, dicevo, grottesca, avrebbe potuto vivere dell’implicito tragico della schiavitù e ossessione sessuale, e crescere verso una torva angoscia. Non lo fa. Ma ne sfiora la possibilità quando l’atto dei tre è reso con un bel trucco di prigionia gestuale, facendoli muovere insieme sotto un velo che li irretisce, e li rende una scultura del tormento.

Il quarto episodio – prima dello sfumato nel climax beckettiano del V atto – si rifa all’unico pezzo giuntoci intatto dal testo petroniano (la cena di Trimalcione), che qui genialmente Verdastro (con la collaborazione di Macaluso) ribattezza ‘La cena del nulla’. Qui si sintetizzano in maniera magica tutto il genio istrionico e tragico-malinconico al contempo di Verdastro, il suo sardonico nichilismo e la sua sapienza registica, mirabilmente esaltati dalle invenzioni sceniche di Stefania Battaglia, e dalla drammaturgia musicale di Francesca Della Monica. La scena è quadripartita, in stratigrafia prospettica. La struttura portante sono una serie di specchi inclinati, in fila serrata a centro scena – principio di sdoppiamento e coscienza per gli attori e il pubblico, e di dissolvimento dell’identità (verrebbe di pensare agli specchi concettuali di Pistoletto). Dietro a questi si faranno narratori gli attori, illuminati nel solo volto, e davanti vi si sdraieranno in altri momenti, sempre al buio. Dietro una pedana permetterà di emergere e sovrastare a figure oniriche di tormento: una Della Monica che canta da Sibilla una ieratica e lamentosa monodia alla Luigi Nono; un malinconico Verdastro intimo, Trimalcione in vestaglia rossa, che parlerà del proprio cupio dissolvi, facendo danzare una marionetta di scheletro in stile terzo teatro. La luce appartiene all’avanscena – il falso della vita – dove in un recinto di cena abbandonata (stoviglie, etc, per terra), delimitato da un bianco filo elettrico a vista, si muove la recita sculettante della vita: servi, imbonitori, commensali, e un Verdastro tutto paillettes e sculettamenti da avanspettacolo (Trimalcione), che imbonisce e irride, per poi trasformarsi, con un reggiseno di plastica bianca, a scena aperta, nelle querimonie della moglie risalita e gelosa. Vi è infine la quarta parete, lo spazio dell’imbonitore, cioè le gradinate del pubblico, da cui scende un imbonitore e presentatore. E fuori scena rumori amplificati e vetrificati di cucina e rigoverno, e poi lo sfrigolio dell’uovo fritto che tutto conlude. E alla fine violente musiche tribali. La morte aleggia come un fantasma sull’orgia alimentare e sessuale, incarnandosi nell’orologio (amplificato a battito cardiaco) che segna il tempo di vita restante, e nel crudele inventato (Magdalena Barile) apologo del lupo mannaro, che all’opposto di ciò che accade nel romanzo, divora la sua amata. Tuttavia il finale è veramente il più bello. Un culmine icastico e poetico. E così doveva essere, perché lo spettacolo di Verdastro, ben più del pretesto petroniano, dietro la maschera cinica e sardonica, e quando evita le secche dell’ideologismo, gronda nella sua denuncia una profonda e melanconica elegia alla vita, una voglia irredenta di ottimismo, che è poi il motivo per cui Beckett – uomo in rivolta camusiano – è più poetico di Ionesco. E’ scritto anche nello sguardo dolce schivo e stupefatto che esibisce nei suoi ritorni in scena, all’applauso reiterato.

Il quinto episodio del resto è a mio avviso anche il culmine del genio scenografico di Stefania Battaglia. Si apre con una nebbia grigia a tutta scena, ma resa lumiosa e magicamente gravida e pulsante da un bombardamento luminoso frontale. Una nebbia in cui lo splendido Sangiorgi (già notevole in Boy George), nei panni di un nudo Mercurio (segno che gli dei sono benevoli), narra in un suggestivo dialetto siciliano la storia della terribile tempesta, del naufragio e della salvezza. Tutti sono morti, ma non Encolpio e Gitone (due bravi e stralunati Alessandro Schiavo e Luigi Pisani), i due innamorati. Il racconto è preceduto dalla gestualità da triste angelo fantasma di Mercurio, che si contorce al rallentatore, e muove le braccia a posture alari. Dopo un crescendo di musica e rumori compaiono a terra – sulla terra sdraiati, e terrosi - sempre nudi, i due amanti, che si ritrovano, e sotto le ali di Mercurio, che li protegge, celebrano le loro fantasie falliche e amorose, sognandosi re di un nuovo mondo. La luce è cambiata, e mimano splendide lotte d’amore. Il tutto – quando ancora non c’è, e inquieti lo sentono arrivare – è preceduto da un intensificarsi rosso fuoco dell’atmosfera, dove in stile masaccesco mimano l’ansia della cacciata dal paradiso terrestre. Si mischiano insieme la ‘terra desolata’ eliotiana e la poesia ottimista della tempesta shakespiriana. Chiude, con surreale e onirico iperrealismo, la gigantografia del volto di Verdastro, che condanna l’idiozia umana, allude all’alternativa del possibile e inneggia al tempo degli affamati. Poi irrompe un canto lamentoso in falsetto, e lui appare, fragile, in groppa a Mercurio (il padre Anchise e Enea ?), ai cui piedi si accuccia poi come un bimbo in cerca di rassicurazione. Invadono la scena, ora verde fosforescente, mute presenze, e il pubblico muto inghiotte, prima di esplodere in applausi.

 

Immagini

Tutte le fotografie sono di © Fabio Gatto Photographer

 

La locandina

SATYRICON - UNA VISIONE CONTEMPORANEA - spettacolo in cinque capitoli dal

Satyricon di Petronio

IDEAZIONE E REGIA: Massimo Verdastro

COORDINAMENTO DRAMMATURGICO: Luca Scarlini e Massimo Verdastro

AIUTO REGIA : Andrea Macaluso

TESTI di: Antonio Tarantino, Luca Scarlini, Marco Palladini, Letizia Russo, Magda Barile, Lina Prosa

SCENE E COSTUMI: Stefania Battaglia

IN SCENA - Massimo Verdastro, Alessandro Schiavo, Luigi Pisani, Giuseppe Sangiorgi, Marco De Gaudio, Andrea Macaluso, Tamara Balducci, Giovanni Dispenza, Valentina Grasso, Giusi Merli;
con la partecipazione di Silvio Benedetto, Francesca Della Monica, Charlotte Delaporte, Anna Moroni

DRAMMATURGIA MUSICALE: Francesca della Monica

MOVIMENTI DI SCENA: Charlotte Delaporte

AZIONE PITTORICA : Silvio Benedetto

LUCI : Valerio Geroldi, Tommaso Checcucci, Marcello D'Agostino

RITRATTI VIDEO: Massimo Verdastro, Marzia Maestri

OPERA VIDEO: „Carmen in Fine‟: Theo Eshetu

Consulenza filologica: Monica Longobardi

Organizzazione e comunicazione: Stefania Battaglia

Collaborazione alla promozione: PAV

Produzione: COMPAGNIA VERDASTRO DELLA MONICA - TSI LA FABBRICA DELL’ATTORE

Tournée – A data da destinarsi

 

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