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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Viaggio con il pupazzo delle contraddizioni

 

Gigantografia cinematografica che avvolge e dialoga con la scena, talora direttamente, talora come commento parallelo; superrealtà onirica che quasi la inghiotte.
La scena è minimalista, fatta del nudo pavimento nero e delle posizioni-azioni degli attanti, attori di identità-parola, di ruoli, in una aggressiva predicatorietà a specchio, tra polemica simmetrica irresolubile e accenti di maledetta postuma santità vaticinante, di socratica auto rivendicazione del martirio accusatorio di chi non è di un mondo che non è mondo, e che inchioda in cocciuta accusa al mondo la propria problematica esistenzialità. Corpo-parola, corpo-idea, corpo-pulsione, carne contro e per. Sangue di un deietto heideggeriano ‘esserci’.

Ma cosa mi ha spinto poco prima dell’alba ad infilarmi ‘ste mutande? …beh, c’è una grande Verità, ed è la sua ansia che non mi ha fatto dormire come un santo… La Verità, beh, - lo sapete bene, ragazzi miei – la Verità non si può dire […] Io potrei dire che lo sfruttamento non è sfruttamento […] che c’è appunto qualcos’altro… quella verità […] cosa aspettate ad ammazzarmi o almeno a sputarmi in faccia ? … perché io sono fuori di me … e attendo una verità che comprenda la mia Verità e la vostra Verità […] parla in me la grande pietà della verità con la v minuscola: quella che ha parole e che io qui, cerco di fissare come un pazzo davanti a voi […] balbettiamo tutti […] se così non fosse la vostra Parola si alzerebbe adesso come quella di un Profeta nel deserto e io cascherei per terra con questo mio corpo così umile, abietto, da cane… “

Ancora una volta Palladini, in ‘Fratello dei cani – Pasolini e l’odore della fine’ (3-6 maggio 2012 – Centrale Preneste – Roma) torna ad interrogare il verbo-carne di Pasolini, dopo averlo fatto nel 2010 con “Il Vangelo secondo Pier Paolo – Partitura scenica da Pasolini’, e ancora una volta è la parola il veicolo principe. Ma mentre là era un Pasolini cristico-marxiano ereticale, e tutto era un collage di parole sue – a turno incarnate dalla voce di Palladini e di Traversa – qui Palladini si sovrappone molto di più al testo pasoliniano, crea un proprio sovra testo; e il Pasolini-Palladini, ritagliato in varie fasi dell’esistenza-coscienza, si scontra incontra con quattro personaggi – il padre, la madre, il sessantottino, la morte – e in apertura con il ‘voi’ sociale, con i ‘predicatori di verità’. Cosicchè il discorso si fa più ricco di contraddizioni, e la scena più animata di azioni e chiaroscuri. Rimane – come l’altra volta – a stacco e commento delle varie stazioni sceniche, l’uso del canto. Anche qui però, questa volta, sciolto in presenza scenica (e dunque attorialità), attraverso la partecipazione del cantautore Amedeo Morrone, con la sua chitarra e il suo mesto e lucido stile impegnato da parlar cantato popolare.

La struttura è precisa. Si articola ‘joycianamente’ come una giornata-vita della coscienza, in cinque tappe – ‘Alba girovaga’, ‘Mattino paterno’, ‘Mezzodì materno’, ‘Pomeriggio filiale’, ‘Notta fatale’ – e di queste stazioni sceniche la prima e l’ultima fanno da cornice ribelle (ribellione in coscienza di esclusione, e dunque di morte predestinata) alle tre parti centrali, segnate dal confronto-bilancio, sofferto, con l’eredità paterna e materna prima, e con il recalcitrante ritrovarsi poi padre critico e scoronato a sua volta. La prima scena parte nel buio, con lo schermo retroilluminato a cielo di notte smorente, e i tre nell’ombra: Palladini a terra supino; il cantautore seduto a un bivacco; Traversa – controfigura del viandante – in piedi in controluce, vicino allo schermo, su cui poi scorreranno spaccati di città deserta, all’alba, in bianco e nero.

Risuona polemico il discorso dell’assenza di verità, della ricerca della piccola verità esistenziale contrapposta alla Verità balbettata dai sacerdoti del conformismo, sociale e di sinistra. E la rivendicazione del coraggio della solitudine da cane reietto contro la pusillanimità del branco. Il discorso – spegnendo con orgoglio di martire cosciente la stagione centrale del dubbio – tornerà, come stanca accettazione della cercata e prevista fine violenta, nel colloquio finale con una morte polemica certificatrice del suo fallimento predestinato, alla quale contrappone la propria orgogliosa diversità. Perde vincendo, e china il capo, conscio di aver esaurito la sua spinta ribelle, di essere fuori tempo, mentre in verticale, di un blu livido, campeggia a tutto schermo una bergmaniana scacchiera. Scacco matto avrebbero detto nel ‘Settimo sigillo’.

Palladini si cala nel tormento pasoliniano. Parteggia, come la cornice evidenzia, nel suo anarco ribellismo di irriducibile ottimista resistenziale intriso di pessimismo post sessantottino. E questo è accettabile, e la sua adesione è la radice stessa dello spettacolo. Ma la parte più interessante è certo quella centrale, dove benché egli incarni sempre un Pasolini che lotta contro il contraddittorio, disegna testualmente, e nella stessa coscienza pasoliniana, le stigmate del dubbio, e le radici esistenziali dei suoi limiti e della coscienza sofferta dei medesimi. Una parte del resto anche scenicamente più viva, per le soluzioni sceniche e per performatività attoriale. In ‘Mattino paterno’ si scontra con un padre ridotto a manichino sadico (Traversa), da beckettiano ‘finale di partita’, portato dal ‘figlio’ in giacca e occhiali da sole - sul controluce di paesaggio montano da clinica svizzera – a spasso su una carrozzella, coperta da un telo di plastica. Bella qui l’interpretazione vocale di Traversa, da caratterista fumettistico espressionistico (voce stridula e gracchiante, sovratono), che nei panni paterni vomita sul figlio la sua condanna di consapevole mediocre porco borghese, e surreale servo metafisico del potere, condannando il figlio-scandalo ad una morte da insetto da schiacciare. Pasolini-Palladini resiste obietta con amara inconsistenza. Non teme più il padre, dopo la propria rabbiosa emancipazione da poeta, ma sente certificata in sé la condanna di una paternità interiore inaccessibile. Il padre ha ucciso in lui la gioia vitale (non l’amore, si badi), e lo ha fissato in una caricaturale eterna ribelle adolescenza fuori tempo. Ma perché l’episodio del padre, e il padre in generale, viene prima della madre? Perché la madre è la poesia, è l’antimateria, e non a caso l’episodio a lei dedicato è il più aperto e poetico, anche scenicamente. La madre non è questa volta in scena, ma un fantasma che si aggira, in primo piano, in solitudine, tra surreali colonnati di una greca tragica atemporalità. giganteggiando nel video, splendidamente interpretata da Cinzia Villari, con introversa dolente e litaniante voce ‘in dentro’ (come una madre che pensi il figliolontano, e tenti lenirne il dolore). Ma interessanti sono le parole, e il loro intrecciarsi nel responsorio parallelo. Questa volta Palladini, pur facendo di suo, usa direttamente molto dei testi pasoliniani. Prevalentemente, per marcare la sofferta e contraddittoria positività della madre, prende dalla poesia ‘Supplica a mia madre’, a cui risponde la madre, citandone vari pezzi. In filigrana tuttavia, soprattutto nell’accusa di conformismo che apre la querimonia del figlio, si può intravvedere la rabbia iconoclasta e crudele di ‘Ballata delle madri’. Non si rispondono, come dicevo. Si fanno eco. Lei risponde con dolore all’idea che la sua grazia e il suo amore e profonda empatia abbiano ‘invischiato’, come direbbero gli psicanalisti, il figlio in una edipica amorosa alleanza con lei, segregando la capacità d’amore del figlio in una tormentata scissione tra ossessione del corpo-sesso (un sesso masochistico ed autopunitivo) e sublimazione nella ricerca degli ideali. Lui la accusa di essere il conformismo introiettato che gli ha reso difficile la ribellione, e vede nella propria inziale adesione al PCI di inventarsi un padre trasferale che annullasse l’ipoteca materna. Ma entrambi concludono c on un dono, un atto d’amore ripartivo, poeticamente smisurato nella madre, contorto e sofferto nel figlio. la madre infatti, dopo aver denegato le contorsioni razionalistiche del figlio in nome della fede in una luminosa irrazionalità, comincia una lunga litania di barocche aporie vitalistiche, con un andante tra lo jacoponico (come echeggiasse il ‘figlio figlio giglio’ della madonna al cristo) e la beatificante onniaccettazione e letizia francescana (del resto si pensi al francescanesimo filmico naive di molti film pasoliniani).

Così recita, “… Beati coloro che non vogliono sapere, perché non sapranno… beati i segnati e i diversi perché vivranno in sogno… Beati coloro che si nascondono non solo le tentazioni della carne, ma la carne stessa, perché vivono della vita degli altri… Beati i miti perché credono ogni uomo mite… Beati i timidi perché non osano credere nella cattiveria… Beati i mostri perché, dovendo dimenticare la propria mostruosità, che è della terra, passano sulla terra come spiriti… Beati coloro che non sanno, perché non sono tra coloro che contano e sono contati: e così non amano se stessi e fanno di se stessi un umile carico di Dio… Beati i diversi perché tacendo sul loro dolore conoscono il silenzio che è fuori da ogni norma…”. Per la loro poeticità sembrano parole di Pasolini, ma mi sfugge la fonte.

Il figlio risponde con un patetico amoroso riscatto dell’impotenza. Definisce la propria poesia una secrezione, il tentativo di digerire la vita, e la paragona a delle feci conservate da un bambino per una amata infermiera. Siamo non a caso alla notoria tregenda della fase anale freudiana, crocevia tra Edipo, madre buona e cattiva, e fecalità distruttiva e autodistruttiva, tipico crocevia di un possibile snodo omosessuale sadomaso e auosvalutante. E notoriamente l’accettazione del dono simbolico è la riparazione del trauma ritentivo, la liberazione da una aggressività mortuaria intro ed estro. Anche se non sfugge l’equivalenza madre-infermiera, ancora lievemente distonica. E’ Pasolini che parla alla madre, o Palladini che parla alla propria. Certo è la prima volta che egli affronta anche la problematica materna, mentore Pasolini.

L’ultimo degli episodi centrali è il confronto con il sessantottino, agito con la bella idea di una azione fisica (i due si contendono gli estremi di una corda), raddoppiata da una genettiana impersonalità metafisica, attraverso due maschere fisse che coprono il volto degli attanti: maschera da vecchio quella di Palladini-Pasolini, da giovane barbuto quella di Traversa-Sessantottino. L’azione fisica movimenta la parola, e le maschere destoricizzano un conflitto generazionale che si fa archetipo. Il giovane accusa Pasolini di anarco passività naive, di una falsa fuga nell’innocenza… Ma anche più crudelmente di non saper vedere che invecchiare è automaticamente farsi padri e segno del potere. Come a dire che il non aver saputo risolvere il padre fuori lo rende inadatto ad affrontare il padre che è in lui, rendendolo giustificazionista e passatista. Pasolini snocciola la sua solita diffidenza verso gli eredi della borghesia, e verso ogni ideologia e sia pur giusta ribellione, che puzza di sacrestia e branco per un nuovo potere conformista e intollerante, a cui oppone diffidenti laicismo e solitaria diversità. Qui le contraddizioni calano, anche se chiaramente Palladini oscilla tra i due poli della contesa. Il suo marchio forse è la terza posizione di fondo, implicita nel discorso di entrambi. Emerge infatti una accusa simmetrica: ad entrambe le parti sfugge il loro slittare inevitabilmente nella riproposizione di una forma di potere, proprio quel potere a cui volevano sfuggire. Ma il potere non è una scelta, è una forma: la si può solo gestire, farne coscienza e uso, al di là di illusioni giovanilistiche. E’ un pupazzo senza forma, a cui ciascuno di noi dà vita a turno. E alla fine i due trascinano tra loro appunto questo pupazzo a grandezza naturale, di pezza monocolore, senza volto. E’ il fantasma del loro discorso, il prigioniero metafisico, la vittima sconfitta ? E’ una semplice bella idea scenica, nella sua umile apertura. E un buon preludio al incombente e mesto duello finale con la morte, tra lotta e abdicazione. Gli applausi sono stati calorosi, e credo meritati.

 

Scheda e locandina

Fratello dei cani – Pasolini e l’odore della fine - ideazione e regia: Marco Palladini.
Con : Fabio Traversa, Marco Palladini, Cinzia Villari (in video)
Musiche e canto: Amedeo Morrone

Cartellone
Teatro Centrale Preneste (Roma) - 3-6/5/2012
Tournée- date da destinarsi

 

 

 

 

 

 

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