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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Tutto per bene, secondo Lavia

Nel triplice ruolo di direttore artistico, regista e attore, Gabriele Lavia presenta al Teatro Argentina di Roma una versione di Tutto per bene che testimonia uno studio capillare del protagonista, ma che, tuttavia, appare alquanto disomogenea nello sviluppo delle sue parti. E' vero che Pirandello compose la commedia su misura per un grande mattatore della scena come Ruggero Ruggeri, ed è anche vero che il primo atto mostra qualche debolezza drammaturgica, ma tutto questo non dovrebbe far perdere di vista l'equilibrio dell'insieme. L'intervento drammaturgico di Lavia, che mescola la pièce con alcune parti dell'omonima novella, è invece così fortemente teso all'esplorazione delle ossessioni di Martino Lori e all'indagine delle sue incertezze, da trasformare lo spettacolo in una sorta di grande monologo interiore, inserito nella cornice asfittica di una commedia borghese piuttosto rarefatta e formalizzata.

Il monumentale impianto scenografico di Alessandro Camera, caratterizzato da colori molto scuri e da forme simmetriche e lineari, è il risultato di una interpretazione simbolica del dramma che, inabissandosi nelle ombre del passato, riduce il coro sociale a cifra astratta. L'unico vero interlocutore di Lori-Lavia sembra essere Silvia Agliani, la moglie morta ormai da anni, il cui fantasma si concretizza sulla scena attraverso il gigantesco monumento sepolcrale che occupa il lato sinistro dell'arco di proscenio. Se il dramma pirandelliano inizia quando tutto è già successo per inscenare, a distanza di anni, il passaggio brusco di Martino Lori dalla recita inconsapevole alla coscienza dell'essere, qui il passato del personaggio grava sui suoi pensieri sin dalle prime battute.

Lo spettacolo, infatti, ha inizio con un flashback, lo stesso che nella novella coincide con l'agnizione finale, ovvero con il momento in cui Lori, ricordando il pianto del senatore Salvo Manfroni sul letto di morte di Silvia e il rifiuto dell'amico di abbracciarlo, viene colto da un'improvvisa rivelazione del loro tradimento. Nella più cupa semioscurità, la scena si consuma con la rapidità del sogno, mentre una voce fuori campo raggela questa sorta di epifania joyciana nella fredda citazione dal racconto in terza persona. Anche gli altri passi della novella, che si incuneano regolarmente tra l'inizio e il termine di ciascun atto, servono a far luce sulla complessità del personaggio, ponendo sempre nuovi interrogativi sui suoi sospetti più o meno rimossi, sui suoi sensi di colpa e su tanti altri nodi irrisolti del suo rapporto con la moglie.

L' intera disposizione della scena sembra funzionare come un punto interrogativo sul mondo interiore del personaggio, divisa come è in due zone nettamente separate e distinte. Quella del camposanto dove Lori confessa alla moglie i suoi dubbi e i suoi più intimi segreti, e l'immenso interno borghese retrostante dove si consuma la recita della grande ipocrisia. Una vera e propria “stanza della tortura”, per dirla con Macchia, elegantissima ma sepolcrale, che riassume in un unico contenitore gli interni delle tre abitazioni, minuziosamente descritti nelle didascalie pirandelliane. Ci sono momenti in cui basta la trasparenza di un velatino nero o un sottile contrasto di luci e ombre a far sembrare l'ambiente irreale e distante, quasi un ricordo o la proiezione di come il protagonista vede o rivede se stesso tra gli altri. Soprattutto nella prima parte dello spettacolo, che procede algida e incolore, nonostante l'illuminante premessa. Disprezzato da tutti, il modesto Lori-Lavia si muove come in punta di piedi, quasi volesse passare inosservato tra gli ingombranti addobbi floreali destinati alle nozze della figlia Palma con il Marchese Gualdi. Quando siede in disparte sull'immenso divano in capitonné di suo genero, egli appare come rimpicciolito dall'ampiezza degli spazi, soverchiato come è dal peso dei suoi stessi pensieri. Intorno a lui gli altri personaggi, irrigiditi negli eleganti costumi AnniVenti di Andrea Viotti, appaiono molto poco caratterizzati, al punto da confondersi nella stilizzazione dell'insieme. I personaggi femminili, in particolare, sembrano automi utilizzati dal regista per far risaltare l'infido potere delle donne a cui Lori si sottomette. La Bardetti (Daniela Poggi) è troppo affettata e altera, Palma (Lucia Lavia) è addirittura odiosa e inutilmente aggressiva, mentre la Signorina Cei di Giulia Galiani proferisce le sue battute in modo così meccanico e monocorde da mettere a dura prova la pazienza del pubblico. Soltanto il Manfroni di Gianni De Lellis acquista uno spessore umano che lo renda credibile. Tra i bagliori di lampi e i rombi di tuono che tingono di gotico l'intera rappresentazione, l'azione a tratti si blocca d'improvviso mentre gli attori azzardano lentissimi passi di danza a ritroso, in un'atmosfera onirica assolutamente di maniera.

Lo spettacolo decolla dalla scena dell'agnizione in poi, quando Palma rivela a Lori di non essere sua figlia, nella piena convinzione che anche lui, come tutti gli altri, lo sapesse già da prima. Ovvero quando Lori, denudato delle maschere che ignorava di indossare, si ritrova d'improvviso di fronte al suo essere un nulla. Un nulla a cui Lavia sa dar corpo e voce con un'intensità ed una potenza espressiva che la prima parte dello spettacolo non lasciava prevedere. Lo sgomento iniziale di Lori, prostrato ai piedi della figlia, è accompagnato da qualche piagnucolio di troppo. Ma, subito dopo, i suoi vani tentativi di reinventarsi un nuovo personaggio e di ricomporre una sua integrità, almeno agli occhi della figlia, acquistano una straordinaria verità e urgenza. Il graduale cedimento alla follia è autentico e tragicamente ironico e la passione, che pure vibra in ogni suo piccolo gesto, viene come trattenuta con misura ed equilibrio. La prova attoriale di Lavia, dunque, va molto oltre i cliché a cui ci aveva abituati, ma da sola non basta a garantire uno scarto artistico all'intero spettacolo che, pur non mancando di nuove intuizioni, di fatto non riesce a violentare fino in fondo il testo di partenza per restituirlo alla contemporaneità.

 

Scheda tecnica
Tutto per bene
di Luigi Pirandello. Scene: Alessandro Camera. Costumi: Andrea Viotti. Musiche: Giordano Corapi. Luci: Giovanni Santolamazza.
Con Gabriele Lavia, Gianni De Lellis, Lucia Lavia, Roberto Bisacco, Daniela Poggi, Riccardo Bocci, Giulia Galiani,Giorgio Crisafi, Riccardo Monitillo, la danzatrice Alessandra Cristiani.
Regia di Gabriele Lavia.

Al Teatro Argentina di Roma dall'8 gennaio al 10 febbraio 2012.

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