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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

Black Tie


Dopo aver ricevuto il Leone D'Argento per le Nuove Realtà Teatrali alla Biennale di Venezia, il collettivo berlinese Rimini Protokoll è approdato per la prima volta anche a Roma, dove ha presentato Black Tie nell'ambito della rassegna Le vie dei festival. Il gruppo, formato da Helgard Haug, Daniel Wetzel e Stafan Kaegi, si è inventato un nuovo genere di teatro post-drammatico che al posto degli attori, trasporta sulla scena i reali protagonisti dei fatti che intendono documentare attraverso i loro spettacoli. L'esperienza diretta di quelli che amano definire gli “esperti del quotidiano”, prende il posto del testo drammatico tradizionalmente inteso, anche se di recente hanno allestito una versione del Wallenstein di Shiller e una messinscena del primo tomo del Capitale di Marx. Il loro teatro documentario è indubbiamente di forte impatto non soltanto per le modalità di rappresentazione (i luoghi sono molto spesso atipici e variano dalla piazza ai camion), ma anche perché mette il dito nella piaga di realtà sociali scabrose, ponendo interrogativi tutt'altro che rassicuranti.

Black Tie porta in scena Miriam Jung Min Stein, una giovane donna nata in Corea del Sud e adottata da una famiglia tedesca negli anni Settanta. L'unico indizio che ha delle sue origini è di essere stata abbandonata ancora in fasce in una scatola di scarpe davanti al municipio di Seul nel 1977 e lo scopo del suo show è quello di raccontare la sua ossessiva ricerca della propria identità. La scena scarna ospita due pedane rialzate, una sul fondo dove un musicista lavora alla parte sonora dello spettacolo, l'altra sull'avanscena dove Miriam illustra la sua storia. Il suo monologo non è e non vuole essere una confessione privata bensì la denuncia di un fenomeno sociale più ampio. Il tono di voce è monotono, quasi una litania, e il suo volto non lascia trasparire la minima emozione, come se Miriam stesse parlando di qualcun altro. La compostezza dei gesti la fa assomigliare ad una sacerdotessa di un rito multimediale. Munita di scanner, di un proiettore e di un data-glove, muove elegantemente la mano nell'aria per scansionare fotografie e documenti che vengono proiettati sul grande schermo azzurrognolo alle sue spalle.

All'inizio, la sua vicenda personale viene presentata come l'anello finale di una lunga catena di eventi storici attraverso immagini che parlano della colonizzazione giapponese, della guerra in Corea, di Harry Holt che organizzò le prime adozioni di orfani di guerra sudcoreani e del regime dittatoriale di Park Chung-hee durante il quale migliaia di bambini vennero mandati all'estero. Poi arrivano i documenti ricevuti dall'agenzia delle adozioni e le foto che la ritraggono da piccola con i suoi genitori adottivi, tanti piccoli tasselli di una biografia lacunosa che Miriam assembla sullo schermo per commentare con distacco la sua diversità e il suo senso di sradicamento. A mano a mano che il racconto si dipana, Miriam dimostra una certa passione per le classificazioni e le statistiche. Con precisione microscopica assembla dati, classifica i comportamenti di lei bambina e quelli dei genitori, calcola l'ammontare giornaliero dei costi affrontati dalla famiglia per crescerla ed educarla. Un elenco prolisso che potrebbe risultare terribilmente noioso se non fosse chiosato da commenti velenosi sugli aiuti internazionali (Bono le fa schifo ed anche Angelina Jolie) e da patetici video postati su internet che documentano l'incontro di alcuni bambini adottati con i loro genitori biologici, una specie di Chi l'ha visto asiatico ancora più ipocrita e melenso.

Meno convincente, anche se funzionale al racconto, è l'arrivo in scena di una specie di doppio di Miriam, una certa Hye-Jin Choi che sta lì a rappresentare quello che Miriam sarebbe stata se fosse rimasta in Corea. Di ritorno al suo paese sulle tracce dei genitori naturali, Miriam viene a sapere attraverso di lei qualcosa in più su fatti culturali di un paese nel quale non riesce a riconoscersi. Come se non bastasse, i documenti dei genitori biologici sono andati perduti in un incendio e al termine del viaggio, Miriam giunge alla consapevolezza di non appartenere veramente a nessun luogo (bellissima è l'immagine epifanica di lei che in fila per il check in all' aereoporto di Seul non riesce a distinguere il suo volto tra la folla riflessa su un vetro). Non le resta che richiedere il suo profilo genetico alla 23andme e alla DeCODEme, due società specializzate nella mappatura dei genomi. Ne risulterà una predisposizione al cancro alla prostata e all'Alzeimer, notizie di cui, ovviamente, non sa che farsene.

La denuncia degli stessi strumenti di cui Miriam si serve per capire se stessa, compresa l'alta tecnologia, è feroce, come lo è la critica al sistema delle adozioni internazionali. Ma lo spettacolo convince più per il suo potenziale informativo che non per quello espressivo. L'orchestrazione di suoni, immagini e parlato è perfetta, ma l'evidente estraneità della protagonista all' arte dello stare in scena nuoce fortemente all'impatto complessivo dello spettacolo.

 

Scheda tecnica

Black Tie, con Miriam Yung Min Stein,Hye-Jin Choi e Ludwig.

Drammaturgia e ricerca fonti : Sebastian Brunger. Scenografia e luci : Marc Jungreithmeier. Musiche originali : Peter Dick (Ludwig / The Noes Have It). Interaction Design : Grit Schuster.

Visto al Teatro India di Roma il 14 ottobre 2011.

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