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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Spettacoli sulle scene e sugli schermi

I giganti della montagna di Stefano Randisi ed Enzo Vetrano

La metafisica di Luigi Pirandello diviene materia viva e palpabile sul palcoscenico di Stefano Randisi ed Enzo Vetrano che, riportando alla luce la potenza espressiva e l’elemento fortemente visionario della sua drammaturgia, ne restituiscono al pubblico la modernità intrinseca, spesso occultata da incrostazioni registiche che l’ hanno imprigionata nella gabbia del teatro borghese. Dopo la surreale versione de L’uomo, la bestia e la virtù (2005) e quella sospesa nel buio di Pensaci, Giacomino (2007), la compagnia siciliana dei Diablogues approda inevitabilmente a I giganti della montagna che è la summa poetica e la riflessione più alta del drammaturgo di Girgenti sul processo stesso di creazione artistica e sulla transitività tra vita e teatro. Semplice e rischiarata da una interpretazione capillare del testo, la messinscena dei Giganti, in cui Randisi e Vetrano figurano entrambi nel doppio ruolo di registi e attori (il primo nei panni del Conte e il secondo in quelli di Cotrone), dà forma concreta all’osmosi tra verità e immaginazione e alle confluenze tra realtà e sogno, ponendo lo spettatore nella posizione di sperimentare in prima persona le ambiguità della percezione del reale. La regia non si sovrappone al testo incompiuto, né lo appesantisce con un finale a tesi che ne spieghi i significati, ma piuttosto dà corpo scenico alla necessità di fare teatro sia dando forma ai propri desideri attraverso l’immaginazione, come intende Cotrone, sia sfidando la sordità del pubblico dei Giganti, come vuole la Contessa Ilse. I due mondi, quello rarefatto degli misteriosi abitanti della villa e quello appena più drammatico e concreto della compagnia di attori in cerca di spettatori, non sono opposti, ma complementari, perché entrambi esprimono l’urgenza dell’uomo di rappresentarsi.

Incorniciato da un boccascena di cartapesta che allude ad antichi teatrini della memoria o della fantasia, lo spazio scenico, pressoché disadorno e fortemente simbolico, si organizza su due piani orizzontali attraverso un praticabile rialzato sul fondo, ed è delimitato ai lati da pareti di quinta dalle quali si aprono la porta d’ingresso e le finestre della villa. Il luogo rimane tuttavia indeterminato poiché sono i getti di luce e la disposizione dei gruppi degli attori sulla scena a definire di volta in volta il vicino e l’altrove, il dentro e il fuori. La linearità del racconto è sospesa nella durata del tempo interiore della poesia e del sogno. “ La Scalogna” diviene, come prescrive Pirandello nella didascalia iniziale, una zona di confine “al limite, fra la favola e la realtà”. La regia rigorosa è tutta giocata sul disegno luci di Maurizio Viani e sul meraviglioso accordo tra le diverse sonorità del recitato. La sospensione dell’azione dove i corpi degli attori appaiono concreti ed evanescenti allo stesso tempo, è il risultato evidente di un lavoro dell’attore su se stesso che risente della scuola di Leo De Bernardinis, secondo il quale l’attore non deve fare, ma essere il personaggio. Un lavoro che è anche collettivo (tutti gli attori sono di alto livello e in perfetta sintonia tra loro) e per certi versi artigianale, ma che mira alla ricerca della verità scenica di ogni singolo gesto e di ogni singola battuta.

Quando il dramma ha inizio le luci fanno emergere dal buio i profili degli “scalognati” in modo graduale dando l’impressione che le loro figure prendano corpo in quel momento, sotto gli occhi dello spettatore. Duccio Doccia, Mara-Mara con l’ombrellino, il nano Quaquèo, la Sgricia e tutti gli altri abitanti della villa abbandonata, si allineano in posizione frontale rispetto al pubblico, presentandosi come massa indistinta che, a sua volta, cerca di capire chi sia “quella gente” che avanza verso di loro. La Contessa Ilse, quando fa il suo primo ingresso in scena adagiata sopra un carretto, sembra priva di vita e si rianima recitando a se stessa, quasi in uno stato di trance, alcuni versi de “La favola del figlio cambiato”. Il suo è forse il caso più eclatante di reviviscenza del personaggio sulla scena, ma tutta la parte iniziale della rappresentazione sembra configurarsi come passaggio dei personaggi dallo stato di entità astratte e pre-esistenti la rappresentazione a quello di identità psicologiche. Il ritmo di questa prima fase ha un andamento lento che crea un senso di attesa e di aspettativa nel pubblico e lo predispone ad una partecipazione attiva alla rappresentazione.

Tutto, in questa messinscena, sembra ruotare intorno alla figura del Mago Crotone, il poeta che inventa la verità, il capocomico che dà corpo alle ombre e fa svaporare le immagini sognate dai corpi che dormono. Come il Prospero scespiriano egli agisce come drammaturgo e regista interno alla rappresentazione. La villa diviene allora l’isola degli incantesimi dove anche gli attori della Compagnia della Contessa che vi giungono stremati dalla fatica e dalla fame sembrano essere apparizioni pilotate dalla bacchetta invisibile del demiurgo. “Perché anche loro- spiega Cotrone agli scalognati- son press’a poco della nostra stessa famiglia”. Non meno drammatica appare tuttavia la vicenda umana di Ilse, l’attrice inascoltata e ridotta alla miseria, che tuttavia non può rinunciare a rappresentare il dramma che un giovane poeta scrisse per lei prima di togliersi la vita. La disperazione di Ilse si scontra con l’ironico ma bonario distacco di Cotrone che la invita a rimanere nella villa, l’unico luogo dove il suo spettacolo possa trovare la sua ragion d’essere. Scene di rifiuti ostinati e taciti ripensamenti si alternano ad altri quadri di straordinaria suggestione figurativa in cui Cotrone mostra ai teatranti i prodigi della sua immaginazione (la stupefacente “accensione” delle lucciole sul buio della scena), le improvvise apparizioni di personaggi che si stenta a capire se siano vivi o se siano morti, come la Dama Rossa o come la Sgricia quando rievoca il sogno in cui l’Angelo Centuno le aveva annunciato l’ ora della sua morte. C’è poi l’immagine dei fantocci nell’arsenale delle apparizioni di kantoriana memoria e la sublime scena del ballo degli attori con i pupazzi. Nel gioco di specchi delle recite nella recita, ognuno gioca il triplo ruolo di personaggio, attore e spettatore ma il passaggio tra realtà e finzione avviene in modo assolutamente fluido e con una naturalezza che non trova precedenti. Grazie alla geometrica sintassi della rappresentazione che fa seguire un quadro scenico dopo l’altro, definendone i contorni attraverso dissolvenze e bagni di luce di diversa caratura cromatica, il testo emerge in tutta la sua ricchezza di significati. Non c’è bisogno di ribadire, o di sottolineare le idee di Pirandello. Il Cotrone di Vetrano più che spiegare i meccanismi dell’immaginazione, li fa esperire direttamente a chi lo ascolta attraverso una recitazione che sospende le parole, le arrangia in melodia di canto, dischiudendone tutto il potere evocativo. Lo stesso, anche se in misura e modi diversi, può dirsi di tutti gli attori che attraverso la tensione e la perfetta misura dei gesti, magnetizzano l’attenzione del pubblico nella spirale delle metamorfosi sceniche. Lo spettatore quasi dimentica di essere a teatro, tanto che si accorge solo alla fine che la figura di Ilse è stata interpretata da due attrici gemelle. Lo sdoppiamento del personaggio arricchisce di senso lo spettacolo offendo una immagine tangibile dell’ambiguità dell’essere e dell’apparire e, inoltre, permette di concludere l’opera con una immagine carica di speranza. Il fragore bestiale dei giganti viene evocato da rumori fuori scena e il finale ricalca quello sognato e raccontato dallo stesso Pirandello a suo figlio Stefano. La Ilse annientata dalla barbarie dei giganti alla fine appare tenuta in braccio dall’altra Ilse, quella che rimane viva, ad auspicare l’immortalità del teatro, proprio come avrebbe fatto il grande ulivo saraceno posto al centro della scena con il quale Pirandello aveva sognato di risolvere il tutto.

 

Scheda tecnica

I giganti della montagna, di Luigi Pirandello.  Scene: Marc’Antonio Brandolini. Costumi: Mela Dell’Erba. Suono: Alessandro Saviozzi. Luci: Maurizio Viani.

Con Ester e Maria Cucinotti, Stefano Randisi, Marika Pugliatti, Giovanni Moschella, Giuliano Brunazzi, Luigi Tabita, Enzo Vetrano, Antonio Lo Presti, Margherita Smedile, Eleonora Giua, Paolo Baietta.

Regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi.

Prima nazionale: 21 febbraio 2010, al Teatro Piccinni di Bari.

Visto al Teatro Valle di Roma, il 15 marzo 2011.

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