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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
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Kazimir Malevic riscoperto a Bergamo

 

Fig. 1

L’occasione è stata di quelle che fanno gola. La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo ha dedicato una grande retrospettiva a Kazimir Malevic. Il nutrito gruppo di opere del grande pittore russo di proprietà del Museo di Stato di San Pietroburgo è rimasto in esposizione a Bergamo dal 2 ottobre 2015 al 24 gennaio 2016, complice la temporanea chiusura per restauro della sua consueta ubicazione.

Non c’era mai stata in Italia una presenza così massiccia di opere di Malevic; si tratta di un pittore “sfuggente”, difficile da trovare nei musei, non solo italiani, perché quasi tutti i suoi quadri sono oggi raggruppati in tre nuclei: uno a San Pietroburgo, nei mesi scorsi in esposizione a Bergamo, uno allo Stedelijk Museum di Amsterdam, con opere solo fino al 1927, e infine uno, più ristretto, al Moma di New York. La fortuna per i visitatori che sono passati da Bergamo è che il nucleo di San Pietroburgo è quello che meglio documenta tutta l’evoluzione (meglio, tutte le evoluzioni) dello stile di Malevic. Che non è semplicemente il pittore del quadrato nero, come spesso viene presentato nei testi scolastici. Anzi: il grande merito di questa mostra è stato proprio quello di dedicare (finalmente) un’adeguata attenzione a tutte le fasi della sua carriera artistica. Per questo, risulta particolarmente efficace il criterio cronologico adottato per l’esposizione.

Unica eccezione è la prima grande sala, dedicata a La vittoria sul sole (Fig. 1), l’opera teatrale del 1913 scritta da Krucenych su musiche di Matjusin, per la quale Malevic curò scenografie e costumi. Si dia un’occhiata al maxischermo con il video di quest’opera messa in scena nel 2013 in Russia, in occasione del centenario, e si provi a immaginare lo stupore di chi la vide nel 1913. Un ritmo, un’atmosfera decisamente moderni. A quest’altezza cronologica, Malevic aveva già le idee ben chiare, sapeva esattamente fin dove avrebbe spinto la sua pittura di lì a poco: ce lo dice nella scena finale dell’ultimo atto, dove gli improbabili e geometrici personaggi sostituiscono il sole (leggasi: la vecchia pittura) con un quadrato nero (la nuova pittura). Il Suprematismo era già nato.

Fig. 2

Come Malevic sia arrivato a questo punto ce lo hanno spiegato le prime sale: le opere giovanili ci restituiscono la figura di un artista perfettamente e consapevolmente aggiornato sulle più moderne posizioni della pittura occidentale (lui che era nato nel 1878 a Kiev, nella profonda periferia dell’impero zarista), a partire dall’autoritratto del 1907, perso in un’atmosfera simbolista e forse un po’ fauve, e dalla precoce fascinazione per cubismo e futurismo di inizio anni Dieci. Fu il primo, per esempio, a sfruttare la grandissima notorietà che la Monna Lisa di Leonardo aveva improvvisamente acquisito dopo essere stata rubata nel 1911 da un artigiano livornese, proponendone una vigorosa negazione con la sua Composizione con la Gioconda del 1914, cinque anni prima di Duchamp e dei suoi baffi. Da qui, la pittura di Malevic è andata via via estremizzando sempre più gli elementi geometrizzanti fino a fare, nel giro di pochissimi anni, proprio dell’elemento geometrico puro il perno della nuova arte: produsse tele che ritraggono un quadrato, un cerchio, una croce, o composizioni di triangoli e rettangoli, come a dire che la pittura non deve più ritrarre il volto del potente di turno, l’immagine di un Dio, un soggetto storico, mitologico, religioso, una natura morta o un paesaggio, ma solo la pura forma geometrica. Il Quadrato rosso (Fig. 2) è una figura femminile, una contadina, dirà Malevic. Eppure, anche se solo di pura forma geometrica si tratta, il dipinto conserva una fortissima forza comunicativa, una carica iconica, esattamente come se si trattasse del ritratto un Cristo Pantocratore o di una Vergine: non viene mai meno, lungo tutta la carriera del pittore, il suo profondo legame con la grande tradizione figurativa del mondo russo-bizantino e con le icone sacre che di quel mondo sono la più alta espressione artistica.

Apparentemente, l’approdo al Suprematismo è un punto di arrivo: tra la fine degli anni Dieci e l’inizio dei Venti, Malevic decide di ritirarsi dalla pittura per dedicarsi completamente all’insegnamento e alla divulgazione dei principi suprematisti (scriverà una grande quantità di articoli e saggi, alcuni dei quali aspettano ancora di essere tradotti in italiano).

Sono anni felici per Malevic, che, spinto dalla sua vicinanza agli ambienti rivoluzionari, riesce a ottenere dal nuovo governo sovietico importanti incarichi in campo amministrativo e didattico. Per un certo periodo, dal 1919, insegna alla scuola di Vitebsk, chiamato lì dal direttore Marc Chagall (a cui succederà proprio Malevic), ma i rapporti tra i due non dureranno a lungo (come potrebbero coesistere due modi di dipingere così radicalmente lontani l’uno dall’altro?).

Ma dai quadri del periodo successivo si capisce che qualche drastico cambiamento è occorso nella vita di Malevic e che la felicità seguita alla rivoluzione del 1917 e durata per tutta la prima metà degli anni Venti è solo un ricordo sbiadito. Non solo è tornato a dipingere, ma è tornato anche alla pittura figurativa. Compaiono ora (a partire all’incirca dal 1926) nelle sue tele uomini e donne senza volto, immobili, sempre in posizione frontale, secondo un’impostazione che richiama ancora una volta quella delle secolari icone russe, manichini che si trovano loro malgrado in un paesaggio scarno, ostile e impersonale. Sono quasi sempre contadini, i martiri dell’epoca moderna che si sostituiscono ai santi delle icone russe, i nuovi poveri cristi creati da una Russia che ormai si era fatta stalinista. Fig. 3L’anno spartiacque è il 1927 (Stalin è al potere dal 1924): Malevic ottiene i permessi per recarsi a Varsavia e successivamente a Berlino per organizzare una grande mostra; mentre è a Berlino decide di recarsi a Parigi (la Mecca degli artisti in quegli anni): qui è raggiunto da un telegramma che purtroppo non è giunto sino a noi. Non sappiamo quindi cosa ci fosse scritto, quello che è certo è che il pittore fa un rapido ritorno in Russia, ma da solo: i quadri li affida a un amico a Berlino. Un amico che li salverà dalla follia nazista: quei quadri costituiscono il nucleo di opere oggi visibili ad Amsterdam (per questo, come si è detto in apertura, il nucleo di Amsterdam è costituito da opere antecedenti il 1927). In patria, Malevic è interrogato più volte dalla polizia di regime; è accusato sostanzialmente di due cose. Primo: è stato in Germania ed è rimasto in contatto con artisti tedeschi, quindi è filonazista. Secondo: fa una pittura poco (o per nulla) comprensibile, quindi va contro il realismo socialista. Viene incarcerato per qualche settimana, gli viene negato il diritto all’insegnamento, numerosi suoi scritti vengono requisiti e distrutti e le sue opere costantemente censurate. Ci rimane un resoconto di tutto questo. È la tela La casa rossa del 1928-30 (Fig. 3): la casa rossa che qui si vede, e che torna anche in almeno un’altra tela, è la prigione usata dal regime per gli interrogatori, dove sapevi di dover entrare ma non sapevi quando e se ne saresti uscito.

Quest’ultima fase della carriera di Malevic, così ben documentata dalla mostra nelle ultime sale, ha posto e pone tuttora numerosi dubbi alla critica. Perché il pittore è tornato a una pittura figurativa? Perché è tornato alla figura umana, seppur stilizzata, dopo averla completamente rimossa dalla pittura? A rendere tutto più complesso ci sono alcune tele, tra cui, in mostra, Le tre contadine (Fig. 4; il quadrato rosso è una figura di donna!) e Il falegname, che paiono segnare un ulteriore passo indietro nella carriera di Malevic, perché ricalcano lo stile del pittore di inizio anni Dieci e sono retrodatate dall’autore stesso a quegli anni. Avremmo una risposta certa a queste domande se si fossero salvati gli appunti del pittore di questo periodo; purtroppo però la polizia di regime li distrusse e quindi non si può fare altro che avanzare ipotesi. Fig. 4Secondo alcuni, il pittore tornò alla figurazione e retrodatò alcune tele come meccanismo di difesa dalla censura; secondo altri, queste opere andrebbero lette come una volontà di ricostruire una propria biografia artistica (Malevic era infatti convinto che le opere rimaste a Berlino fossero andate distrutte); secondo altri ancora, cercò di avvicinarsi ai dettami del regime abbandonando l’arte astratta. Probabilmente, c’è qualcosa di vero in ognuna di queste ipotesi, ma forse la spiegazione a questo ritorno alla figurazione va ricercata nel Suprematismo stesso: esso non è stato un punto di arrivo, ma di partenza. Nelle opere di quest’ultimo periodo, si compie l’ultima tappa di una sorta di processo hegeliano di tesi-antitesi-sintesi: il Suprematismo, che aveva negato secoli di storia di pittura figurativa, alla pittura figurativa torna, ma con una nuova consapevolezza, una consapevolezza, per l’appunto, suprematista.

E allora si spiegano quei rigidi manichini che hanno un ovale al posto del volto, si spiegano tele come gli Sportsman (Fig. 5; bellissimo il confronto proposto dalla mostra con l’opera Corsa di un altro grandissimo pittore russo, ma in linea con il realismo socialista, Deineka), trovano una spiegazione le meravigliose linee orizzontali su cui galoppano i cavalieri di Cavalleria rossa del 1928-32 (Fig. 6), un vero capolavoro. La storia politica, fisica, di quest’opera è ancora più interessante di quella più strettamente artistica: si tratta dell’unico pezzo di Malevic non censurato dal regime, grazie a un riferimento alla rivoluzione d’ottobre scritto sul retro della tela dallo stesso Malevic, come se il quadro fosse un omaggio all’impresa dei bolscevichi del 1917. Tutto il contrario: non c’è nessun omaggio, nessuna celebrazione nella corsa verso il nulla di quei minuscoli uomini che «avendo visto l’orizzonte, si gettarono a correre in quella direzione convinti di poterlo raggiungere, senza rendersi conto che tutti siamo su un orizzonte e non c’è bisogno di correre da nessuna parte» (il virgolettato è di Malevic).

Fig. 5  Fig. 6

Un occhio particolare per l’ultima sala, interamente dedicata alla tipologia del ritratto, a cui Malevic si dedicò all’inizio degli anni Trenta, poco prima della morte nel 1935. La scelta dei quadri esposti, efficacissima in tutta la mostra, diventa qui particolarmente felice grazie ai dialoghi che le nove tele di questa sala mettono in scena tra loro. Il banale Costruttore di socialismo di Volt’er (non un quadro, ma solo un’illustrazione di propaganda) rende bene l’idea di quale fosse la pittura di moda nella Russia stalinista. La bellissima Operaia di Pachomov, di impianto cezanniano, e la modernissima Quattro operai di Petrov-Vodkin, con la sua fissità e la sua atmosfera sospesa che ricordano i maestri italiani del tardo Quattrocento come Piero della Francesca, Botticelli o Leonardo, testimoniano invece la produzione più artisticamente valida del realismo socialista. Artisti di regime, è vero, ma non per questo incapaci di avere una posizione moderna e inedita, in quanto personale, all’interno della storia dell’arte. Impietoso, invece, è il confronto tra l’autoritratto di Riazkijn e quello di Malevic: tanto il primo, per quanto tecnicamente perfetto, è ancora fermo a un modo di dipingere tardo ottocentesco, con l’ennesima (auto)celebrazione di un animo che si vuole presentare travagliato, tanto il secondo (Fig. 7) è di una modernità e complessità di significati forse oggi non ancora pienamente afferrati da parte della critica.

Fig. 7

Due sono i riferimenti culturali che stanno dietro quest’opera. Primo: la posizione frontale, con il volto di tre quarti e un braccio alzato all’altezza del petto, ricalca quella della Vergine Odigitria, un prototipo di icona tardo bizantina molto diffuso nel mondo artistico ortodosso. Secondo: Malevic si è autoritratto nei panni di Cristoforo Colombo prendendo spunto dai ritratti del navigatore dipinti da Sebastiano del Piombo, Ghirlandaio, e altri artisti italiani rinascimentali. Queste opere erano ben impresse nella mente di Malevic: le aveva viste, adolescente, nel 1892 in occasione delle celebrazioni per il quattrocentenario della scoperta dell’America. Pensò quindi alla grande tradizione del ritratto rinascimentale italiano come mezzo per ridare alla propria carriera di artista quella dignità che gli era stata scippata dal potente di turno e dalla sua censura di regime.

Che fine hanno fatto i principi del Suprematismo in questo ritorno al ritratto? Sono solo nascosti dai riferimenti artistici. Perché Odigitria, letteralmente, significa colei che indica la via: Maria indica il Bambino, personificazione della via cristiana per la salvezza; e allo stesso modo, Malevic indica il Suprematismo come via maestra per la salvezza dell’arte. E perché Colombo aveva scoperto un nuovo mondo geografico, così come Malevic ha scoperto un nuovo mondo artistico. Ma se questo non bastasse, i personaggi delle tele di questi ultimi anni sono immersi nel nuovo mondo suprematista: la moglie (due i ritratti in mostra) e la Lavoratrice del 1932-33 (Fig. 8, vedi anche Fig. 9), quasi una moderna Madonna senza Bambino (perché non c’era via per la salvezza per i lavoratori della Russia stalinista), hanno tutti alle spalle un fondale nero, omogeneo, senza paesaggio, si potrebbe dire che hanno alle spalle un quadrato nero. E se i volti e le braccia denotano un certo ritorno a una pittura di tipo realistico, elementi puramente geometrici, suprematisti, sono inseriti negli orli dei vestiti, nelle spille, nelle gonne, nei colletti delle camicie. Nella Lavoratrice, Malevic costruisce un corpo reale, vissuto, segnato dal tempo e dal lavoro, secondo una pittura naturalista, e lo nega subito schiacciandolo sotto un vestito che è solo forma geometrica. 

Fig. 8  Fig. 9

Così anche il ritratto della moglie (Fig. 10), rappresentata di profilo quasi fosse la Battista Sforza ritratta da Piero della Francesca o la nobildonna di Antonio Pollaiolo oggi al Poldi-Pezzoli, con un gesto della mano destra che sembra quello delle kòre greche, con una fissità di sguardo e un fondale neutro che danno all’opera un’aria da icona bizantina, riesce un’opera autenticamente suprematista, con l’abito che è solo un accostamento di macchie di colore: un rettangolo rosso per la gonna, un ovale blu per il braccio, una macchia ocra per il busto. E anche qui, tutto il volume di una figura negato dall’elemento suprematista che orna il vestito. E come ultimo e ulteriore grido di affermazione suprematista, la firma: un piccolo quadratino.

Fig. 10

Sparirono tutte queste tele dopo la morte, nel 1935, del pittore, chiuse nei depositi del museo di San Pietroburgo, che le mise in esposizione solo verso la fine degli anni Ottanta, dopo la Perestrojka di Gorbaciov. Per questo la mostra di Bergamo ha costituito un’occasione unica: sono state per la prima volta in Italia le opere censurate per sessant’anni di un autore che ha fortemente contribuito al cambiamento della storia della pittura occidentale. L’ha cambiata nella sua precoce e convinta adesione al futurismo russo; l’ha cambiata nella consapevole stesura dei principi del Suprematismo spingendo l’arte astratta fino agli esiti più radicali (quanto hanno influito i suoi lavori per gli altri grandi astrattisti russi, Mondrian e Kandinsky? Quanto hanno pesato per l’astrattismo e per l’espressionismo astratto americani?); l’ha cambiata ancora quando ha offerto un completo ripensamento dell’arte suprematista alla luce della propria rinnovata esigenza di tornare alla pittura figurativa. È stato una moderna figura di pittore, profondamente calato nel suo tempo, impietoso e coraggioso critico della sua società (e per questo ha pagato tantissimo), capace di esprimersi anche al di fuori della pittura: nelle scenografie e nei costumi teatrali, nelle arti applicate come la ceramica, nei modellini architettonici. Una capacità unica non solo nel rinnovare l’arte, ma anche nel radicale e soprattutto continuo ripensamento della propria arte, mai pago delle proprie opere.

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1. Alcuni dei costumi di scena e il video de La vittoria sul sole nell’edizione del 2013, che ricostruisce fedelmente quella del 1913. Costumi e scenografie di Malevic. I costumi sono stati donati al Museo di Stato Russo di San Pietroburgo.

Fig. 2. Quadrato rosso: realismo pittorico di una contadina in due dimensioni, 1915, olio su tela, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

Fig. 3. Casa rossa, 1932, olio su tela, 63x55cm, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

Fig. 4. Le tre contadine, 1927-28, olio su tela, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

Fig. 5. Sportivi, 1930-31, olio su tela, 142x164cm, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

Fig. 6. Cavalleria rossa, 1928-32, olio su tela, 91x140cm, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

Fig. 7. Autoritratto, 1933, olio su tela, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

Fig. 8. Lavoratrice, 1933, olio su tela, 70x58cm, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

Fig. 9. Giovanni Bellini, Madonna con Bambino (Madonna Lochis), 1475ca., tempera su tavola, 47x34cm, Accademia Carrara, Bergamo.

Fig. 10. Ritratto della moglie, 1932-33, olio su tela, 69x56cm, Museo di Stato Russo, San Pietroburgo.

 

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