La "Sforziade" e le miniature del Birago (Parte II)

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 LA “SFORZIADE” E LE MINIATURE DEL BIRAGO:

L’EPOPEA SFORZESCA E IL DESTINO TRAGICO DI GIAN GALEAZZO SFORZA

 

Parte seconda

GIAN GALEAZZO SFORZA NELLE MINIATURE DI PARIGI E VARSAVIA

Le connessioni tra le quattro miniature incrociano la storia della famiglia e ne racchiudono sottintesi e retroscena, ma è soprattutto nelle due opere di Parigi e Varsavia che convergono puntuali riferimenti alla persona del duca Gian Galeazzo. Infatti le miniature di Parigi e di Varsavia a lui dedicate “fotografano” i momenti cruciali della sua esistenza, così come sottolineati nella precedente ricostruzione storico-biografica connessa alla Sforziade. Trattasi di due opere radicalmente diverse che attestano discontinuità sotto il profilo artistico. Le differenze stilistiche e di “atmosfera” tuttavia non pregiudicano né l’identificazione del destinatario a cui entrambe sono dedicate né la possibilità di individuare precise connessioni temporali e riferimenti biografici documentati e rivelatori.

LA MINIATURA DI PARIGI

La miniatura di Parigi (in fig.10 parte I), datata nei primi anni del ’90, (con massima probabilità nel 1493 e certamente prima del 1494, anno della morte di Gian Galeazzo), fissa il momento cruciale in cui la sua “emancipazione”, che fino ad allora era stata interdetta, cominciò a costituire una minaccia reale per il potere del Moro (8). Indizio significativo dell’avvenuto matrimonio con Isabella d’Aragona è la tradizionale pietra rossa matrimoniale delle donne Sforza (9), che compare sotto il medaglione con la testa di Gian Galeazzo.

La figurina identificabile nel suo primogenito ed erede, (il duchetto Francesco, nato nel 1491), raffigurato accanto all’altra figura nera più piccola, posta a fronte, identificabile nel primogenito del Moro (Ercole Massimiliano, nato nel 1493) indica l’avvenuta nascita dei discendenti: entrambi sono raffigurati come arbusti posti ai due lati degli alberi appaiati che rappresentano rispettivamente Gian Galeazzo (bianco e di inferiore altezza) e lo zio Ludovico (nero, più alto e robusto, e di stazza dominante) (10).


Fig.11
part. Alberi, Sforziade di Parigi

Nella miniatura di Parigi è evidente l’influsso ispiratore del Moro, in quanto (come evidenziato dalle scritte che ne esaltano il ruolo protettivo) vi incarna lo stereotipo del “patrigno buono”, protagonista di un copione autocelebrativo al quale il povero Gian Galeazzo fece per parte sua fede fino alla fine .

La figura centrale in basso pone invece paritariamente l’uno di fronte all’altro lo zio e il nipote, mentre la barca sullo sfondo è governata dal Moro, che ne detiene la guida (i remi), e Gian Galeazzo è accanto all’albero maestro e alle vele. Ancora una volta nel quadretto idilliaco vengono definiti i ruoli di fatto svolti dai due Sforza nel governo dello Stato (mentre in realtà il Moro aveva avocato a sé ogni potere).

Sullo sfondo compare la figura benedicente di Ludovico di Tolosa, protettore degli infermi e al contempo chiara allusione a Ludovico il Moro stesso, equiparato anche nel nome alla figura del santo tutelare, in quanto si faceva carico del nipote malaticcio (che tuttavia fino al luglio 1494 non diede segni del misterioso male che lo avrebbe stroncato in capo a tre mesi). La dea Fortuna – raffigurata secondo la tradizione sul dorso di un delfino – è simbolicamente beneaugurante.


Fig.12
part. Barche, Sforziade di Parigi

Conformemente alle imprese dei due rami dei rispettivi capostipiti, esibite da Gian Galeazzo sul “Cassone dei tre Duchi”(ovvero i tizzoni di Gian Galeazzo Visconti e l’ascia conficcata nel tronco di Giacomo Attendolo), la composizione augurale che traspare dal complesso delle “imprese” che costellano la miniatura, sta a sottolineare il compito del giovane duca di portatore della continuità della tradizione viscontea con quella sforzesca. L’insieme è caratterizzato dai colori accesi delle decorazioni floreali e vegetali, che si assimilano a cornucopie, ad evocare fertilità, abbondanza e prolificità.

Come si vedrà dallo svolgimento comparativo relativo alla miniatura di Varsavia, un gioco alquanto scoperto di rimandi si instaura tra la nave posta centralmente nel quadretto alla base della miniatura di Parigi e la navicella nera entro lo stemma ibridato – riportante l’impresa sforzesca delle “onde montanti” - collocato al piede della fascia miniata sinistra della miniatura Di Varsavia (riprodotta per intero in fig.20).

Il valore della connessione tra le due barche, presenti su entrambe le miniature, troverà una compiuta spiegazione nell’analisi della posteriore atipica miniatura di Varsavia magistralmente resa dallo studioso polacco Bogdan Horodyski, che nel 1954 riconobbe per la prima volta la firma del Birago “PS PR IO PETR. BIRAGUS. FT” (decifrata come Presbiter BR io Pietro Birago fecit) sul bordo di un vaso nell’esemplare di Varsavia (mentre prima il Malaguzzi Valeri lo individuava come Pseudo Antonio da Monza).


Fig. 13
particolare del vaso con la firma per esteso del Birago



LE IMPRESE NELLA MINIATURA DI PARIGI

Anche nella miniatura di Parigi le “imprese Visconti Sforza” offrono precise e decisive informazioni relative ai personaggi e alla loro storia. Poiché nell’analisi condotta la considerazione delle “imprese” - qui documentata in estrema sintesi - è assunta come cruciale e rivelatrice, anche in profondità, diversamente dalla maggioranza degli approcci, che assegnano loro una funzione prevalentemente formale ed improntata ad ufficialità.

- Al centro in alto, ai lati della bandiera, sono posti i “tizzoni ardenti” (col motto “HUMENTIA SICCIS”), “impresa” personale del padre Galeazzo Maria, che l’aveva mutuata dai Visconti. I tizzoni compaiono sulla sua bandiera e pure sulla gualdrappa del cavallo (suo e del figlio Gian Galeazzo), sul Cassone dei tre Duchi del Castello Sforzesco di Milano (sul cassone i tizzoni viscontei prediletti dal padre compaiono accanto al “buratto”, impresa propria del giovane duca).


Fig. 14
I tizzoni ardenti con HUMENTIA SICCIS (impresa)

- A lato della testa del pater patriae Francesco compare l’impresa de “il levriero bianco, l’albero e la mano arcana” (motto QUIETUM NEMO IMPUNE LACESSET), che qui è benedicente e lascia cadere il collare sciolto: tale impresa è sempre posta in diretto rapporto con Francesco Sforza.


Fig. 15
Il levriero bianco, l’albero e la “mano arcana”
QUIETUM NEMO IMPUNE LACESSET
(impresa)

Di Francesco compare anche “la scopetta” dal motto MERITO ET TEMPORE (prediletta e adottata dal Moro, qui raffigurato accanto al nipote), nella mano di un putto musicante.

Fig. 16
La scopetta dal motto MERITO ET
TEMPORE (impresa)


- Sopra il medaglione con la testa di Gian Galeazzo, compaiono due imprese care al padre Galeazzo Maria e presenti sulla sua bandiera:

- a destra: “la colombina” (motto A BON DROIT) che fu di Gian Galeazzo Visconti fondatore della dinastia: secondo la tradizione la colombina origina da un disegno del Petrarca donato al capostipite visconteo;


Fig. 17
Colombina
col motto A BON DROIT (impresa)

- a sinistra: l’impresa dei “tre semprevivi” col motto MIT ZEIT(prediletta da Bianca Maria Visconti);


Fig.18
I tre semprevivi col motto MIT ZEIT impresa)

 - il cuore, che campeggia sullo scudo in alto a sinistra con le iniziali di Gian Galeazzo e Ludovico, è una rivisitazione – voluta probabilmente dal Moro attuale tutore - dell’impresa “due mani divine che stringono un cuore”, creata da Galeazzo Mari per il suo matrimonio (d’interesse) con Bona di Savoia.


Fig. 19 impresa
Due mani divine che stringono un cuore

Dall’analisi del complesso delle imprese dell’esemplare di Parigi, si evince la priorità assegnata al ruolo ducale di Gian Galeazzo (accoppiato all’onnipresente zio tutore) e alla sua discendenza. Inoltre emerge il legame principale con la tradizione del ramo visconteo della sua parte famigliare. La datazione dell’esemplare di Parigi è unanimemente ritenuta dagli studiosi antecedente al 1494, anno della morte di Gian Galeazzo, così pure è unanime il riconoscimento in essa del giovane duca.

La levità delle immagini e i valori cromatici luminosi, unitamente a elementi simbolici che richiamano il matrimonio e la paternità, paiono prefigurare per il giovane duca un futuro promettente, nel segno di una emancipazione che si profila ancora possibile, nonostante il suo stato di soggetto sottoposto a tutela, evidenziato pure dalle iscrizioni.

 

LA MINIATURA DI VARSAVIA


Fig. 20
L’intera miniatura di Varsavia

Tanto luminosa appare la miniatura di Parigi (ricca di simboli evocanti il matrimonio e la fertilità e di ornamenti vegetali lussureggianti), in cui la figura di Gian Galeazzo campeggia e anima la scena, tanto più – nell’assenza del protagonista ormai defunto - si presenta al confronto cupa e dimessa, nelle figure e nei simboli spogli, la miniatura di Varsavia. L’assenza del giovane duca, a cui è dedicata, viene sottolineata dalle sue iniziali GZ con l’omega per abbreviatura (coincidenti con quelle del padre Galeazzo Maria, e con le quali compaiono entrambi nelle raffigurazioni ufficiali). Al proposito riporto particolare estratto da Lermolieff Ivan (Giovanni Morelli), “Opere dei maestri italiani nelle gallerie di Monaco, Dresda e Berlino”, Bologna, Zanichelli, 1886, nel quale il Morelli attribuisce a Cristoforo de Predis le iniziali, riferendole al Duca Galeazzo Maria. In realtà la tradizione più antica, cara ai discendenti dei Visconti e ben nota pure al miniatore Birago, assegna anche al primo duca Gian Galeazzo Visconti queste iniziali G.Z., poiché - come scrive Giuseppe Gavazzi nell’articolo Ricerca del fiorino d’oro di Giangaleazzo Visconti (Rivista di numismatica italiana 1888, fascicolo IV, p.411 e segg.) - egli era solito fregiarsi del solo nome Galeaz in monete e altre raffigurazioni ufficiali, omettendo il prenome Johannes.



Fig. 21
Stralcio dal libro di Morelli

Emblematica la raffigurazione delle stesse armi del Cassone dei tre Duchi. : la faretra con le frecce e la spada portate dai tre duchi a cavallo, e lo scudo tondo, portato da ciascuno dei tre servitori appiedati.


Fig. 22
Cassone dei tre duchi

Mentre nella miniatura di Parigi la presenza di Gian Galeazzo è ovunque pervasiva, nella miniatura di Varsavia è la sua memoria e quella del padre che rivive, non senza una perturbante vena funerea nei simboli e nelle “imprese”che ne costellano le fasce miniate laterali e quella centrale superiore. Il velo cupo che aleggia sulle fasce laterali e su quella alta della miniatura si fonde con esito stridente all’umore grottesco della scenetta centrale in basso in cui, in posa scurrile, campeggia il Moro nudo attorniato da una schiera di putti-armigeri prostrati a lui.

Altre più sottili connessioni svelano il risvolto simbolico dolente - a tratti funereo – della miniatura di Varsavia. In alto a destra si distingue l’immagine del pellicano, simbolo sacrificale di Cristo, accanto a un uccello di cui non si discerne se si tratti della colomba viscontea o dell’aquila data la forma ambigua. Inoltre, mentre l’accesa composizione di Parigi era ravvivata dalla pietra nuziale rossa della tradizione famigliare posta sotto il profilo del giovane duca, la simbolica e perturbante alchimia dai toni bruni dell’opera di Varsavia presenta la medesima pietra in verde ed in azzurro freddo, con sfumature viranti al grigio cinerino: colori antitetici alla fiamma della gemma rossa di Parigi dall’identico taglio, posta sotto la testa di Gian Galeazzo.

A proposito della proprietà e del committente dell’opera di Varsavia, ben più controverso è il dibattito rispetto alla miniatura di Parigi, per la quale, unica tra le quattro, è documentata la provenienza dalla Biblioteca Ducale. Infatti intorno alla miniatura della Sforziade di Varsavia, dedicata alla memoria di Gian Galeazzo Sforza, non si conviene unanimemente né sulla datazione né sulla proprietà (11).

 

UNA MINIATURA DAL “CARATTERE ASSOLUTAMENTE ECCEZIONALE” (12).

La specificità di questa miniatura consiste nel fatto che il Birago vi appose la propria firma e che per la prima volta essa venne decifrata da Bogdan Horodyski(primo scopritore del secret du nom di Giovan Pietro Birago) nel suo fondamentale studio del 1954.(13).

Essa tuttavia nell’insieme si appalesa “atipica”sia sotto il profilo iconografico che per l’insolita “atmosfera” che la impronta, oscillante tra la commemorazione postuma e il grottesco. Lo studioso polacco per primo ne fissa la datazione posteriormente alla morte di Gian Galeazzo: “après la mort de Gian Galeazzo Sforza (c’est-à-dire après le 21 octobre 1494)” (14). Inoltre ne sottolinea il carattere politico non esente da tratti caricaturali, collocandola nell’entourage della vedova Isabella avverso al Moro. Per Horodyski si tratta indubbiamente di una miniatura differente dalle altre due, dal “caractère absolument exceptionnel: sa miniature figurative, en bas de la bordure, est une caricature politique”(15).

L’elemento caricaturale con risvolto politico si appalesa con riferimento all’immagine centrale in basso, che raffigura il putto-Moro nudo omaggiato dai putti-armigeri (Fig.10). Horodyski evidenzia che “ Une telle image ne pouvait etre bien vu que dans le cercles ostile à Lodovico il Moro, c’est-à-dire dans l’entourage de Bona de Savoie et d’Isabelle d’Aragon” (16). Infatti, dopo la morte (per avvelenamento) di Gian Galeazzo e l’usurpazione del Moro, intorno alla vedova Isabella si strinse una agguerrita cerchia di famiglie nobili che, più o meno scopertamente, parteggiavano per la successione legittima del “duchetto” Francesco, figlio del duca scomparso.

Condivisibile è quindi l’interpretazione di Horodyski, che stabilisce la stretta appartenenza della miniatura al ramo famigliare del duca e della vedova: tale assunto trova conferma nello studio sviluppato a partire dal 2011, che, partendo dalle iniziali GZ (legate al primo duca Gian Galeazzo Visconti e identificative di Galeazzo Maria Sforza e del figlio Gian Galeazzo), attraverso l’analisi delle “imprese” raffigurate e la ricostruzione storica della vicenda famigliare fino al fatidico 1494, rafforza le conclusioni dello studioso polacco pubblicate nel 1954.

Il richiamo comparativo alla raffigurazione di Francesco Sforza, che nel frammento della miniatura di Firenze (fig.6, parte prima) era attorniato dai massimi generali del passato, accentua, “per contrasto”, la natura caricaturale della scena. Le affinità compositive emergenti dalla comparazione delle due scene suggeriscono che l’autore delle miniature intendesse deliberatamente contrapporre l’archetipo nobile del condottiero Francesco di alto lignaggio, attorniato dai suoi pari, all’erede Ludovico il Moro, rappresentato in chiave dissacrante, nudo e assiso tra iscrizioni adulatorie, mentre – accerchiato da putti adoranti in armi - addita la testa soprastante del modello paterno. Il neo duca Ludovico, anziché attorniato dall’elite dei grandi nell’olimpo, appare nudo e circondato da un gruppo scalcagnato di cortigiani armigeri prostrati.


Fig 23
Figura centrale in basso col moro nudo (Varsavia)

L’identificazione dei componenti del gruppo armato ipotizzata da Horodyski, seppure argomentata, è destinata a restare un tentativo, che, in quanto tale, presenta ampi margini d’incertezza. Le identificazioni date anche in seguito da altri studiosi ai putti adoranti il Moro sono svariate, ma esse non trovano conferme probanti né l’eventuale acquisizione di prove al riguardo potrebbe comunque incidere sostanzialmente sulla lettura complessiva della miniatura, i cui protagonisti restano il Moro e il “convitato di pietra” Gian Galeazzo, il grande assente e ombra portatrice della memoria del padre e della propria parte famigliare.

A riprova della sua interpretazione, che si accentra sul protagonista Gian Galeazzo, Horodyski adduce tra l’altro – come accennato in precedenza - la presenza della barca contrapponendola a quella della miniatura di Parigi. Qui è funereamente nera, duplicata in forma schematica e posta dentro uno scudo di fantasia ibridato coll’impresa sforzesca delle “onde montanti”, ad attestare di una dis-continuità tematica e cronologica con la precedente barca di Parigi.


Fig. 24
La figura in basso con lo scudo e la nave nera (Varsavia)

Il Moro-timoniere (che nell’esemplare di Parigi era affiancato dal nipote seduto presso le vele), qui è una figurina nera e sola, poiché evidentemente è solo al governo del Ducato e il nipote è già morto. Al proposito Horodyski osserva: “ Les illustrations portent des traces du deuil après la mort de Gian Galeazzo: dans la barque qui représente L’Etat, l’unique passager et pilote en mème temps, est un negre”mentre nell’esemplare di Parigi “la mème barque contient, à coté du nègre, la silhouette de Gian Galeazzo

Le imprese raffigurate sulla miniatura di Varsavia celebrano la memoria dinastica viscontea-sfozesca e la memoria dei due duchi padre e figlio , evocati dalle stesse iniziali “GZ” con cui compaiono nelle rappresentazioni ufficiali (come sul “Cassone dei tre Duchi” del Castello Sforzesco). Horodyski sottolinea il segno inquietante e vagamente funereo delle iniziali poste dentro lo scudo spezzato su fondo nero come “un abisso” “…dans le coin superieur gauche de l’enluminure, on voit un bouclier brisé avec le monogramme de Gian Galeazzo tau-dessus le mème monogramme disparaissant dans un fond noir comme dans un abime..”(17)

LE IMPRESE DELLA TRADIZIONE E IL BURATTO RIVELATORE:
UNA CONFERMA PER LA TESI DI HORODYSKI

La tesi fondamentale dello studioso polacco nel corso degli anni Ottanta subì una serie di attacchi e fu sconfessata (18), ma nonostante questo ancora oggi, per il suo rigore e la sua coerenza, resta un caposaldo nell’interpretazione di questa singolare opera “firmata” del Birago. Nel corso del presente studio, si sono riscontrati nuovi elementi apportatori di conferme e integrazioni alla tesi di Horodyski , sulla base dell’analisi, oltre che delle “imprese” ricorrenti nelle quattro miniature della Sforziade, della comparazione degli elementi simbolici implicati, con particolare attenzione alla miniature di Parigi e Varsavia, dedicate a Gian Galeazzo Sforza (19).

Per la miniatura di Varsavia, la tesi di Horodyski esce rafforzata e integrata dall’inedito valore assegnato alle “imprese” della dinastia Visconti-Sforza. In quanto connesse a una storia che affonda nella famiglia e nella biografia individuale, sono portatrici di una molteplicità di significati. In particolare, per la loro genesi e le motivazioni della loro adozione, si legano specialmente al personaggio loro “autore” e alla sua stretta discendenza, facendosi indicatori peculiari e distintivi di identità/personalità/destino.

Nella miniatura di Varsavia compaiono alcune imprese mutuate da entrambi i rami: quello materno (Bianca Maria) visconteo e quello paterno (Francesco) sforzesco.

Dal padre Francesco sono mutuate le imprese:

- del “levriero/albero/mano arcana” (l’unica condivisa con la miniatura di Parigi) ved. Fig.15

- la tradizionale impresa sforzesca delle “onde montanti”

- i “tre anelli intrecciati con diamante”, concessa nel 1409 dal marchese di Ferrara Niccolò II d’Este al capostipite Muzio Attendolo dopo la conquista di Reggio Emilia (tale impresa fu poi concessa a varie famiglie nobili dagli Sforza e la si ritrova pure in forma analoga presso la corte medicea).

Della tradizione viscontea ricorre l’impresa forse più solenne e preziosa, cioè il “capitergium” il cui motto era DIVIXIA IMPERATORIS. Tuttavia la raffigurazione di questa impresa risulta sorprendentemente deformata, resa quasi irriconoscibile: in tale rappresentazione, che la altera visibilmente, si può cogliere l’intento del Birago, fortemente simbolico e portatore di valenza ermetica. Il prezioso fregio imperiale parrebbe trasformato in un cappio di colore bruno, con quanto di infausto per la dinastia ne consegue.


Fig. 25
IMPRESA DIVIXIA IMPERATORIS


Fig. 26
Versione trasformata in cappio
(Stralciata dalla Sforziade di Varsavia)

Infatti, anziché essere presentata quale tradizionale ornamento destinato ad avvolgere il capo per detergerne il sudore (come dice la parola stessa), l’”impresa” fondativa della dinastia viscontea è presentata, tramite una sorta di “effetto anamorfico”, con la forma di un laccio (simile a un cappio) in colore scuro e tale da confondersi con lo sfondo, rendendosi visibile solo tramite una concentrazione dell’attenzione da parte dell’osservatore. La sorprendente deformazione potrebbe essere superficialmente fraintesa, considerandola in senso spregiativo. In realtà l’alterazione dell’impresa, mimetizzata con lo sfondo in modo da renderla poco visibile, è del tutto coerente con l’aura ermetica e improntata alla mestizia e al lutto che traspare dalla miniatura.

Il “capitergium”, retaggio di tradizione imperiale e legato all’investitura a primo duca di Milano del capostipite Gian Galeazzo Visconti, (il 5 settembre 1395 in Sant’Ambrogio, a Milano), è trasformato in un simbolo di sconfitta, svuotato dell’antica regalità, ed è facile comprenderne la ragione. Infatti, dopo la morte (per avvelenamento) di Gian Galeazzo (1494), il Moro destituì l’erede legittimo duchetto Francesco e il ramo discendente dal fratello Galeazzo Maria. L’usurpatore con questo atto infranse l’originaria nobiltà viscontea posta alla base del potere dinastico. La trasformazione dell’ornamento imperiale in cappio, resa con effetto anamorfico, ne fa il simulacro dell’oltraggio perpetrato dal Moro alla tradizione e alla morale.

Vi è infine una impresa rivelatrice – la cui preminenza è testimoniata dalla sua duplice replicazione – che riconduce inequivocabilmente alla figura del duca Galeazzo Maria Sforza, suo ideatore (assassinato nel 1476) e a quella di suo figlio Gian Galeazzo (morto avvelenato nel 1494). Si tratta del “buratto”, che compare raffigurato due volte, simmetricamente a fronte, in mezzo alle fasce miniate destra e sinistra. Esso compare sulla gualdrappa del cavallo di Gian Galeazzo sul cassone dei tre duchi, unitamente all’impresa viscontea dei “tizzoni” portata sullo stesso cassone dal duca Galeazzo Maria, mentre il Moro porta l’impresa della “scopetta”, che fu di suo padre e fatta propria. Come già sottolineato, Gian Galeazzo sul cassone vi è rappresentato come colui che porta su si sé la tradizione congiunta di entrambi i rami Visconti-Sforza.


Fig. 27
Il buratto focalizzato sulla gualdrappa

L’impresa del “buratto” col motto TAL A TI QUAL A MI, è raffigurata due volte e in grande rilievo sulla miniatura di Varsavia (riprodotta a fig.20): è l’impresa propria di Gian Galeazzo e, alla luce della sua vicenda esistenziale, ne rappresenta pure simbolicamente il destino.

 

IL VIAGGIO DELL’ARGONAUTA SCONFITTO GIAN GALEAZZO/GIASONE

Dalla lettura “in profondità” del significato delle imprese nel contesto famigliare si ricavano nuove aperture interpretative per quanto concerne la miniatura di Varsavia, pur restando integralmente nel solco della prima e fondamentale tesi di Horodisky.

La peculiare raffigurazione che la miniatura di Varsavia dà del “ buratto” (o setaccio), nel conservarne il primigenio valore di impresa identificativa di Gian Galeazzo, rimanda al mito del vello d’oro e alla metafora che nella trama del mito stesso accomuna le figure del giovane Duca orfano a Giasone. Infatti dalla stola (coincidente col “buratto”, dal motto “TAL A TI QUAL A MI” scritto sul cartiglio sopra lo scudo) scende una pioggia d’oro, rimandando all’ identificazione della stessa pure col “vello d’oro”.


Fig. 28
Buratto con scudo e motto

 

Fig. 28 bis
A fronte, buratto bianco purificato

I due putti-argonauti portatori dello scudo in cui è raffigurata la “stola/buratto”, vestono la pelle d’ariete (il vello del mitico animale), che li assimila ai pastori della Colchide, ove si trova il vello d’oro. Nelle zone montuose della Colchide si narrava dell’esistenza di pastori-cercatori d’oro seminomadi che usavano un setaccio ricavato dal vello d’ariete per separare le pagliuzze d’oro. Inoltre precisi e ben documentati episodi della biografia di Gian Galeazzo e la sua tradizione famigliare, che legava il suo ramo a quello Aragonese della moglie da un lato e a quello Asburgico acquisito tramite il matrimonio della sorella Bianca Maria avvenuto nel 1494 dall’altro, consentono di riconoscere nel “vello d’oro” un simbolo ricorrente nella sua storia personale.

Per un verso il vello d’oro rinvia a precisi e ben documentati episodi della vita del giovane duca (compare nel pranzo di nozze presso il conte Bergonzio Botta in Tortona citato dal Verri sulla base della descrizione che ne diedero il Taccone e il Calco) e alla tradizione famigliare di Isabella stessa (i cui parenti Aragona erano tutti notoriamente affiliati all’ordine del Toson d’oro). D’altra parte la sorella Bianca Maria Sforza, nel 1493,( un anno prima della morte di Gian Galeazzo), aveva sposato l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, Gran maestro dell’ordine del Toson d’oro dal 1470 al 1482.

La doppia raffigurazione del “buratto” – da un lato sullo scudo col motto e assimilato al vello d’oro, e dall’altro candido e purificato – ne sottolinea il legame con l’idea del “viaggio” e della purificazione. L’assimilazione del “buratto” al vello d’oro è giustificata oltre che dal significato di purificazione e innocenza, anche da un parallelo col mito di Giasone. Nella miniatura di Varsavia il Birago proietta nel mito l’odissea famigliare dei duchi Galeazzo padre e figlio. La figura dell’erede Gian Galeazzo, con il suo dramma personale e politico, viene rivestita di un alone leggendario, lungo il percorso che ricalca (limitatamente al primo tratto) il “viaggio” di Giasone dentro il copione tragico della morte del giovane duca.

La vicenda personale del duca ventiquattrenne fa comprendere quanto sia calzante in generale il tema della purificazione e della ri-fondazione del regno, che la lettura in profondità della miniatura svela; inoltre la comparazione della storia di cui è portatore Gian Galeazzo con quella mitica di Giasone mette in luce analogie sorprendentemente precise (ovviamente per la parte che coincide con la storia familiare connessa alla triade Giasone – Esone – Pelia, che rispecchia fedelmente la triade “Gian Galeazzo/Giasone” orfano del padre, “Galeazzo Maria/Esone” duca assassinato, di cui Ludovico il Moro/Pelia è lo zio usurpatore ). (20)

La connessione con l’unificante tematica del viaggio di purificazione e redenzione alla conquista del vello d’oro, che impronta la miniatura, si rivela pertinente. L’aura malinconica che sulla fascia alta e ai lati pervade la miniatura, come un velo steso sulla memoria delle cose perdute, racchiude il senso della sconfitta e l’epilogo dell’impossibile viaggio di Gian Galeazzo, fragile e sconfitto eroe innocente.

Il “capitergium” deformato a forma di cappio, e la maschera tragica sottostante, che campeggia a metà della fascia miniata, stanno a conferma di questa interpretazione.

Al centro in basso trionfa in trono lo zio Ludovico il Moro, nudo e grottesco.

Diversamente dall’eroe Giasone (che pure avrà una tragica fine) Gian Galeazzo non conquisterà mai il vello d’oro. Ma l’allegoria di cui la miniatura si fa portatrice, con la sfida del viaggio per la conquista di una nuova purezza e di un regno aureo, a ben vedere oltrepassa il contesto specifico della storia famigliare sforzesca a cui è destinata, consentendone una lettura in chiave universale.

La possibilità di una lettura multidimensionale e l’originalità unita alla forte carica enigmatica, fanno sì che la miniatura di Varsavia – a cui Horodyski per parte sua assegna un “carattere assolutamente eccezionale” - possa considerarsi, accanto al celebrato “Libro delle ore”, il capolavoro (non a caso firmato per esteso) di Giovan Pietro Birago.

 

UNA TESI NUOVA: LA MINIATURA DI VARSAVIA
APPARTENEVA A CATERINA SFORZA

La tesi di Horodyski, che sostiene che l’opera di Varsavia fosse dedicata a Gian Galeazzo e alla sua famiglia, risulta confermata alla luce dell’analisi delle imprese in essa raffigurate. Trova fondamento tuttavia un’integrazione che offre un apporto inedito a questa conclusione. Che cioè la miniatura appartenesse alla sorellastra Caterina Sforza, figlia di Galeazzo Maria e della sua amante Lucrezia Landriani.

E’ vero che la miniatura dal 1518 porta direttamente alla persona di Bona Sforza regina di Polonia, figlia di Gian Galeazzo, e che sulla fine del XVI secolo passò dalla biblioteca reale a quella di Zamoyski.

E’ altresì possibile che tale miniatura prima ancora fosse proprietà del figlio di Gian Galeazzo, il “duchetto” Francesco, morto in Francia nel 1512 per una caduta di cavallo, e che sia pervenuta alla sorella Bona dopo la sua scomparsa.

Sono ipotesi più che plausibili, stante l’inesistenza di documenti al riguardo. Certamente l’esemplare della Sforziade di Varsavia con la sua miniatura non fu vista dal de Beatis durante la sua visita alla Biblioteca di Blois dell’11 ottobre 1517, tra i cimeli degli Sforza vagamente accennati, poiché – come risulta dall’originale manoscritto XF28 con annotazioni in rosso in margine della Biblioteca Nazionale di Napoli – egli non ne fa cenno, mentre cita con precisione altri libri.

 

La pista che riconduce a Caterina Sforza costituisce un’ipotesi alternativa non solo plausibile, ma giustificata dall’analisi della miniatura stessa.

Tra i significati allegorici e cifrati, sono leggibili episodi riferiti oltre che alla memoria di Gian Galeazzo e del padre Galeazzo Maria, a Caterina Sforza, la quale compare nel gruppo degli armigeri, mentre omaggia il Moro (a destra di chi guarda).

Horodyski ne dà identificazione sicura: Caterina è la figurina armata più esile inginocchiata, che egli definisce “la femme la plus belliqueuse de la Renaissance” e che dice essere legata allo zio il Moro in quanto “ambassadrice dans maintes affaires en dehors de Milan” (21).

Caterina, sorellastra di Gian Galeazzo e nipote del Moro, nel 1488 riebbe Forlì grazie all’aiuto militare dello zio Ludovico e all’intervento dell’armata capitanata dal Sanseverino. Anche la datazione è consona all’inserimento di Caterina nel gruppo degli armati, per via di quella vittoria e della sua figura di guerriera, che ben si inquadra nel libro dedicato al condottiero e uomo di governo Francesco I Sforza, suo nonno.

Con allegorico “humour”, la bionda tigressa degli Sforza, la cui fisionomia “angelica”doveva probabilmente essere somigliante al ritratto di Lorenzo di Credi, custodito presso la Pinacoteca di Forlì , veniva quindi raffigurata – in quanto valorosa combattente – nel gruppo degli armigeri.

Ella peraltro soggiornò spesso presso la corte sforzesca e vi è segnalata nel 1487. La sua figura era a vario titolo alquanto “presente” nel contesto milanese.

A sostegno di questa ipotesi, nell’angolo sinistro in basso compare l’armatura blu punteggiata di stelle di foggia “femminea”e, soprattutto, compare un elemento simbolico che la identifica. Si tratta dell’oscuro fiore nero con cinque petali – la cui forma ricalca quella della rosa dei Riario – che campeggia in alto sulla colonna destra, a evocare l’idea dell’anemone, fiore dell’Ade (nel particolare in fig.29bis risulta scarsamente visibile a causa dei colori scuri). La stessa forma a cinque petali del fiore compare nel famoso ritratto di Lorenzo di Credi, tra le mani della modella che si ritiene generalmente essere appunto Caterina Sforza.

Fig. 29
Stemma Riario

 

 

Fig. 29 bis
Fiore nero (miniatura Varsavia)

Il fiore miniato coi suoi petali neri sottolinea il carattere funesto legato ai lutti di Caterina nel periodo 1488-95, che comprende gli eventi a cui si riferisce la miniatura. Suo marito Girolamo Riario era stato assassinato nel 1488, mentre nuovamente nel 1495 aveva subito il lutto per l’uccisione del giovane amante Giacomo Feo. Al 1495 risale con ogni probabilità la miniatura, portatrice di un’aura malinconica, che evoca la morte del fratellastro Gian Galeazzo avvenuta l’anno prima.

L’ipotesi avanzata si inscrive nel contesto della tesi dello studioso polacco, senza introdurvi sostanziali varianti, in quanto Caterina, figlia di Galeazzo Maria e sorellastra di Gian Galeazzo apparteneva allo stesso ramo famigliare al quale Horidyski assegna la proprietà.

 

DUE MINIATURE PER UN DESTINO

Nella miniatura di Parigi, datata anteriormente al 1494, il Birago pone acutamente in luce le ambiguità che improntano il legame del Moro “ tutore” con il nipote, allora sposo e padre, che, secondo le più ricorrenti ricostruzioni storiche, diventerà vittima immolata per l’ ambizione dello zio.

Nella miniatura di Varsavia, non datata e certamente posteriore all’ottobre 1494, l’”assenza” del nipote si tramuta, attraverso il sapiente apparato simbolico, in una pervasiva presenza risuscitata dalla memoria dal regno delle ombre.

Il tema coinvolge in primis Gian Galeazzo, poiché egli qui - estraneo al contesto osannante con scritte al potere del grottesco zio “in trono”- resta il “convitato di pietra” (protagonista assente nel gruppo miniato e nella realtà).

La rievocazione simbolica di eventi precisi e datati trapassa lungo il perimetro di entrambe le miniature in dimensioni altre, in cui storia personale e della famiglia unitamente a suggestioni mitiche e leggendarie convergono nell’epos della dinastia sforzesca e, in ultimo, nella sacrificale immolazione in cui (per usare le parole del Corio) Gian Galeazzo “come immacolato agnello senza veruna causa” fu “spinto dal numero dei viventi”.

Con le miniature di Parigi e Varsavia il Birago ci consegna, oltre a una cronaca datata, anche uno spaccato storico della Corte sforzesca nella seconda metà del 1490. La definizione di “insolito reperto” ben si addice alla originale miniatura di Varsavia e agli inediti risvolti interpretativi, sconfinanti nel mito che la stessa offre. In base ad essa è possibile una lettura non solo storica e biografica, ma anche una comprensione in profondità della vicenda esistenziale e politica del giovane duca Gian Galeazzo Sforza.

L’analisi e l’interpretazione della miniatura rivela una più complessa e sottesa visione del destino del personaggio nel contesto di una storia dinastica oscura, che lo accomuna al mito e alla leggenda in chiave tragica. Con questa opera d’arte il Birago ci consegna infine anche un documento in grado di sintetizzare la storia nascosta della famiglia sforzesca in quegli anni segnati dalla dominazione di Ludovico il Moro.

(cfr. la PRIMA PARTE del saggio)

 

NOTE AL TESTO

(8) Con dispetto del Moro, l’invisa Isabella era riuscita a sconfiggere l’iniziale impotenza di Gian Galeazzo, dandogli un figlio maschio a un anno dal matrimonio, e inoltre, con la sua combattività, era riuscita a rafforzare quegli aspetti del suo carattere che fin dall’infanzia l’opera formativa del Moro aveva fiaccato, deresponsabilizzandolo e reprimendo la capacità decisionale del giovane. Si può dire che il 1490 fu per Gian Galeazzo l’anno che preludeva alla possibile “rinascita”: infatti riuscì a superare i problemi coniugali dell’anno precedente e concepì l’ erede , ma al tempo stesso quello fu probabilmente l’anno in cui il Moro – che temeva l’influenza di Isabella sul nipote - comprese che non era più possibile farne riconoscere ufficialmente l’impotenza, avocando a sé, in mancanza di eredi legittimi al ducato, ogni diritto al governo dello Stato. Inoltre intorno ad Isabella si fortificava l’entourage di corte e dei signori ligi alla linea di successione legittima e la frangia estrema dei dissidenti che complottavano contro di lui, giudicato un usurpatore (e dai più - inclusi gli storici dell’epoca – considerato il mandante dell’avvelenamento del nipote).

(9) Circa il significato “nuziale” della pietra rossa montata in oro per le donne degli Sforza, rinvio alla ricerca relativa alla “Dama con la reticella di perle” pubblicata nell’inserto Addenda, op. cit, Savona, 2012. Vedasi anche articolo qui pubblicato nella sezione Rinascimento.

(10) La presenza dei due alberelli accanto agli alberi intrecciati della Sforziade di Parigi sta a rappresentare Gian Galeazzo e il Moro con i loro primogeniti, che compaiono rispettivamente nella piccola figura negra che fronteggia la speculare figurina bianca. Il duchetto Francesco nacque nel 1491, mentre il primogenito di Ludovico, Ercole Massimiliano, nacque nel 1493 (data più probabile della miniatura). Ciascuna figurina addita l’altra in un ambiguo gioco gestuale. Davvero fantastica e spettacolare è la rappresentazione dell’”albero del Moro”, dalla chioma oscura e con solido tronco. Il Moro ha lo sguardo rivolto verso terra alla schiera di conigli/lepri nel recinto (forse la cerchia dei cortigiani). I due alberi - il Moro dominante e Gian Galeazzo sottomesso - sono uniti in un abbraccio che sta a significare protezione e affidamento, mentre i due alberelli “figli/eredi” si fronteggiano in una rappresentazione ambigua, la cui interpretazione è alquanto ardua

(11) Datazione e proprietà dell’esemplare della miniatura conservata presso la Biblioteca Nazionale di Varsavia non trovano alcun elemento a suffragio. Il de Beatis, che l’11 ottobre 1517 visitò la Libreria del castello di Blois lasciandone testimonianza scritta, non ne segnala in alcun modo l’esistenza nel manoscritto originale autografo XF28 conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, contenente le annotazioni in rosso apposte in margine (parla unicamente dei “Trionfi” del Petrarca, e del “Remedio contra adversam fortunam” del medesimo, di un certo “Hor de la Madona” coi “misteri de la Passione” e inoltre delle “Metamorfosi” in latino e francese, accennando vagamente a libri di Ferdinando primo e di Ludovico Sforza).

Chi sostenesse che l’incunabolo di Varsavia fosse frutto del saccheggio dei Francesi durante l’invasione di Milano nel 1499, non troverebbe elementi a supporto, poiché i passaggi noti sono solo ipotizzati e non documentati, in quanto non sussistono prove in merito. La cosa certa – come attesta lo studioso polacco Bogdan Horodyski – è che nel 1518 la Sforziade è nelle mani di Bona Sforza, figlia di Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona. Questo va a corroborare l’ipotesi dello studioso polacco, che originariamente l’esemplare in questione appartenesse giusto ai discendenti di Gian Galeazzo Sforza, alla cui persona si riferiscono i simboli araldici e le imprese. L’incunabolo in seguito passa alla collezione di Jan Zamoyski, ove “sopravvive” all’incendio appiccato nel 1944 dai nazisti. Passa quindi alla Biblioteca Nazionale di Varsavia ove è rimasto fino ad oggi.

(12) La presente analisi assume quale punto di riferimento fondamentale lo studio di Horodvski e ogni citazione è testualmente desunta da: Horodyski B., Birago, miniaturiste des Sforza, tr. francese di Wierzbicka M., in Scriptorium, “Revue internazionale des etudes relatives aux manuscripts “ Tome X, n. 2 (estratto dallo studio integrale pubblicato su Biuletyn Historii Szluki, Varsavia 1954). Al proposito, in alcune parti del libro indicato in bibliografia, (Glori C. e Cappello U., Savona, 2012), viene supportata con nuovi argomenti la tesi di Bogdan Horodyski, integrandola con una particolareggiata analisi delle “imprese” della miniatura di Varsavia legate alla figura paterna di Galeazzo Maria e segnatamente a quella di Gian Galeazzo, ed inoltre ricostruendo la dimensione mitica sottesa alla ideazione della miniatura stessa, che associa la figura di Gian Galeazzo a quella di Giasone attraverso un parallelo che ne accomuna i destini

(13) Giovan Pietro Birago prima della scoperta della sua firma era noto come “Pseudo Antonio da Monza” e come “Maestro del libro d’orazioni di Bona Sforza di Savoia”. Il Carta e il Malaguzzi Valeri lo definiscono “cappellanus et pictore”. Era un ecclesiatico al servizio di Bona di Savoia per la quale eseguì molte prestigiose commissioni (ciò a conferma della profonda conoscenza della vicenda esistenziale di Gian Galeazzo fin dalla prima infanzia). Dopo la morte del giovane duca continuò la sua attività artistica al servizio di Ludovico il Moro. Stante il lungo servizio reso al ramo della famiglia di Gian Galeazzo, si ritiene che conservasse il suo attaccamento di lunga data anche dopo la sua morte e che la miniatura di Varsavia fosse a lui commissionata proprio dai suoi discendenti.

(14) Horodiski B., Birago, miniaturiste des Sforza, tr. francese di Wierzbicka M., (estratto da uno studio su Biuletyn Historii Szluki, Varsavie 1954), in “Revue internazionale des elude relatives aux manuscripts “ Tome X, n. 2, p. 252

(15)Horodiski B., Birago, miniaturiste des Sforza cit., p. 252

(16)Horodiski B., Birago, miniaturiste des Sforza cit., p. 254

(17) Horodiski B., Birago, miniaturiste des Sforza cit., p. 255

(18) Una esposizione esauriente degli attacchi portati alla tesi dello studioso polacco sarebbe lunga e complessa. In sintesi si può rilevare che le argomentazioni addotte contro tale tesi non hanno alla loro base una sufficiente documentazione iconografica e araldica e mancano di approfonditi riferimenti alle “imprese” costitutive della tradizione della famiglia Visconti Sforza. Per una consultazione e uno studio critico, si rinvia alla bibliografia specifica sottostante nella sezioneLe miniature di Giovan Pietro Birago in La Sforziade di Giovanni Simonetta, Milano, Zarotto, 1490“.

(19) lo studio è riportato in: Glori C. e Cappello U. “Enigma Leonardo: decifrazioni e scoperte - La Gioconda. In memoria di Bianca”, Cappello, Savona, 2012,pp.195-209 e 321-329

(20)A proposito della morte di Galeazzo Maria, alcuni storici riportano sospetti ed accuse dell’entourage della vedova Bona di Savoia rivolte al Moro quale occulto mandante dell’assassinio del fratello, di fatto compiuto da tre giovani rivoltosi e libertari della nobiltà milanese

(21) Horodyski B., cit., p.254).

 

Didascalie delle immagini

Figura 11- Giovan Pietro Birago, Miniatura in La Sforziade, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi, particolare degli alberi ed alberelli che raffigurano Gian Galeazzo e il Moro con i rispettivi primogeniti

Figura 12 - Giovan Pietro Birago, Miniatura in La Sforziade, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi, Particolare . La barca ivi rappresentata, con il duca Gian Galeazzo alle vele e lo zio reggente al timone è in stretta relazione con la barca nera duplicata e posta sullo stemma di fantasia raffigurato alla base della fascia miniata sinistra della miniatura di Varsavia, ove la figura al timone è sola (ovvero il nuovo duca Ludovico il Moro, al potere dopo la morte del nipote).

Figura 13 -Giovan Pietro Birago, Miniatura in La Sforziade, Biblioteca Nazionale Narodowa, Varsavia, particolare del vaso con la firma –

Figura 14 - I tizzoni ardenti con il motto HUMENTIA SICCIS

Figura 15 - Il levriero bianco, l’albero e la “mano arcana con il motto QUIETUM NEMO IMPUNE LACESSET

Figura 16 - La scopetta riportante il motto MERITO ET TEMPORE, con cui il Moro voleva spazzare le brutture dalla penisola.

Figura 17 - Colombina col motto A BON DROIT

Figura 18 - I tre semprevivi col motto MIT ZEIT

Figura 19 - L'impresa Due mani divine che stringono un cuore

Figura 20 - Miniatura di Giovanni Pietro Birago - Biblioteca Nazionale Narodowa, Varsavia - Incunabolo La Sforziade(Rerum Gestarum Francisci Sfortiae Mediolanensium Ducis), tradotta in italiano da Cristoforo Landino, impressa da Antonio Zarotto in Milano nel 1490.

Figura 21 Le iniziali GZ citate dal Morelli in Lermolieff Ivan (Giovanni Morelli), “Opere dei maestri italiani nelle gallerie di Monaco, Dresda e Berlino”, Bologna, Zanichelli, 1886, p.426

Figura 22 - Cassone dei Tre Duchi, Castello Sforzesco, Milano - Sulla gualdrappa compaiono le rispettive imprese: la “scopetta” replicata varie volte per il Moro, i “tizzoni” per Galeazzo Maria e il “buratto” unitamente ai” tizzoni” e alla “mano che percuote con l’ascia il tronco” per il futuro duca Gian Galeazzo.

Il Moro è indicato come DUX BARI mentre il duca di Milano in testa al terzetto è Galeazzo Maria, in quanto ancora vivente o idealmente considerato tale, seguito dall’erede Gian Galeazzo posto al centro. Le “imprese” che presentano sono quelle da loro privilegiate e che li identificano accanto alla loro bandiera. Nel caso di Gian Galeazzo, che pare concentrare sui paramenti del suo cavallo tutta la tradizione viscontea, l’impresa personale del “buratto” si accompagna a quella dei “tizzoni” e a quella della ”mano che percuote con l’ascia un tronco” con il rispettivo motto.

Figura 23 - Giovan Pietro Birago, Miniatura in La Sforziade, Biblioteca Nazionale Narodowa, Varsavia . Particolare centrale in basso. Dalla comparazione con il particolare del frammento della Galleria degli Uffizi, riportato nella parte prima in Fig. 7, che celebra la grandezza del “pater patriae” - si evidenzia il carattere politico e caricaturale di questa scenetta della miniatura di Varsavia, volta a conferire al Moro un caratteregrottesco.

Figura 24 - Giovan Pietro Birago, particolare della Miniatura in La Sforziade, Biblioteca Nazionale Narodowa, Varsavia . L’immagine della barca nera e con una sola figura è posta in relazione alla barca con Gian Galeazzo e il Moro della Sforziade di Parigi qui riprodotta in Figura 12 . Tale raffigurazione di fantasia riporta l’impresa delle onde montanti.

Figura 25 Il Capitergium col motto DIVIXIA IMPERATORIS

Figura 26 La variante de il Capitergium, resa con effetto anamorfico e riprodotta a forma di cappio nel particolare della miniatura del Birago della Sforziade, Biblioteca Narodowa di Varsavia

Figura 27 - Cassone dei Tre Duchi, Castello Sforzesco, Milano: Particolare dell’impresa Il buratto sulla gualdrappa del cavallo di Gian Galeazzo Sforza con il motto TAL A TI QUAL A MI

Figura 28 e 28bis -Le due raffigurazioni del Buratto simmetriche a fronte nella miniatura del Birago della Biblioteca Narodowa di Varsavia. Sul cartiglio sovrastante lo scudo si legge il motto TAL A TI QUAL A MI. I due putti che reggono lo scudo rivestono la pelle dell’ariete, a rammemorare l’impresa del vello d’oro di Giasone al quale Gian Galeazzo viene raffrontato in chiave simbolica. Dal buratto scende una pioggia d’oro in riferimento appunto al vello d’oro, ma anche al fatto che i pastori e cercatori d’oro della della Colchide usavano la pelle d’ariete per separare le pagliuzze d’oro. Il buratto bianco simmetricamente a fronte richiama il tema della purificazione

Figura 29 e 29bis : il fiore nello stemma dei Riario e il particolare della miniatura del Birago di Varsavia con i cinque petali neri (evocanti il lutto) che replicano la medesima configurazione. La forma dei cinque petali del fiore dello stemma dei Riario-Sforza – qui riprodotto in forma stilizzata - sulla miniatura di Varsavia è replicata dal Birago tramite la composizione allusiva dei cinque petali neri. Similare forma delle corolle compare nei fiori del ritratto della Dama del Di Credi, che viene generalmente identificata in Caterina Sforza in base a tale dettaglio : Lorenzo di Credi, Dama dei gelsomini, 1490 circa, Pinacoteca di Forlì.

 

BIBLIOGRAFIA

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Glori C.-Cappello U., Enigma Leonardo: decifrazioni e scoperte – La Gioconda. In memoria di Bianca, Volume I, Cappello, Savona, 2012. pp-301- 329

Horodyski B., Birago, miniaturiste des Sforza, tr. francese di Wierzbicka M., (estratto da uno studio su Biuletyn Historii Szluki, Varsavie 1954), in Scriptorium, “Revue internazionale des elude relatives aux manuscripts “ Tome X, n. 2

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