Inoltrarsi nel buio. Il ghiribizzoso Pontormo e la notte

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Fig. 1 

La notte è una profondità pura senza piani,
senza superficie, senza distanza da me
.

Maurice Merleau-Ponty

 

Tra Giorgio Vasari, pittore ambizioso e cortigiano, e Jacopo Carucci detto Pontormo (1494 - 1556), non poteva esserci intesa possibile. Troppo attento ai propri abiti (eleganti, a dichiarare lo status raggiunto) e alla promulgazione di un nuovo classicismo (incarnato da Leonardo, Michelangelo e Raffaello), il primo, troppo misantropo e ‘ghiribizzoso’ il secondo, perché tra i due potesse scorrere buon sangue. Non a caso il Pontormo troverà spazio tra Le vite de' più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani solo nell’edizione giuntina del 1568.

In realtà, al di là delle differenze formali (comunque di sostanza), il rapporto era reso oltremodo difficile anche da una sorta di tradimento: il Pontormo agli occhi del Vasari si era macchiato di una colpa grave, divorziando molto presto da una visione pittorica condivisa (“Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e’ fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abandonare?”1). E il divorzio si consuma sotto i colpi portati all’armamentario che per il Vasari rappresenta la ‘realtà’ in pittura, o per lo meno il modo a disposizione di un pittore per restituirla armoniosa addomesticando lo spazio con la prospettiva e disciplinando allo scopo il colore e lo sfumato. Pontormo, invece, “uomo fantastico e solitario” (è sempre il Vasari), come un novello demiurgo si pone in competizione con l’opera di Dio, creando a tale scopo un proprio ed esclusivo mondo sorretto da regole e forme differenti, e popolato da esseri umani non così scontatamente umani.

È a Benedetto Varchi, che andava indagando la scultura e la pittura mettendole a ‘paragone’, che il Pontormo rivela a parole (in una lettera del febbraio 1548) quanto già sperimentava e realizzava visivamente, e cioè la difficoltà di gareggiare con il Creatore, la fatica e il tormento insiti nel creare: “Ma quello ch'io dissi essere il pittore troppo ardito, si mostra dal pretendere di superare la natura in volere dare spirito a una figura, e farla parere viva, e farla in piano; che se almeno egli avesse considerato, che quando Dio creò l'uomo, lo fece di rilievo, come cosa più facile a farlo vivo, e' non si avrebbe preso un soggetto sì artificioso, e piuttosto miracoloso e divino”2. E così, il suo mondo creato imbocca una strada differente e, soprattutto, non seguita da altri, per diventare un luogo dai contorni astratti, popolato da un’umanità plasmata nella cera e vestita di panni dai colori inusuali ed eccentrici. Come eccentrico appare il “pesce d’huovo”, la metamorfica frittatina modellata come un’aringa ricorrente nel suo diario, il Libro mio.

Jacopo è fin dagli esordi un creatore maniacale e dedito al lavoro, a soli diciannove anni - mentre era ancora a bottega da Andrea del Sarto – riceve l’incarico di dipingere due figure allegoriche (Fede eCarità) [Fig. 1] con putti sul portico della Santissima Annunziata, e lui esegue da par suo. In modo eccellente, quindi, però rinserrandosi in solitudine e cercando di serbare il segreto intorno al proprio lavoro. Preso in contropiede dagli eventi, i frati scoprono l’opera credendola finita, non potrà fare quanto si riprometteva: distruggere il già realizzato per rifarlo migliore.

Si rinserrerà separandosi dal mondo, complice la peste, anche per soddisfare la richiesta di un ciclo di affreschi commissionatagli nel 1523 dal priore della Certosa del Galluzzo. Con i monaci si fermerà ben due anni, a proprio agio in quel luogo fuori dal mondo, per portare a termine le Storie della Passione.

Il medesimo comportamento si ripresenterà con le pitture eseguite per decorare la Cappella Capponi nella chiesa di Santa Felicita, e da questo lavoro appartato, eseguito tra il 1525 e il ’27, uscirà il capolavoro della Deposizione (o Pietà, oppure Trasporto di Cristo) [Fig. 3]. Coerentemente figlio della stessa esigenza di chiudersi ai condizionamenti e di chiudere il cantiere ad occhi estranei, sarà anche l’ultimo lavoro della sua vita durato undici anni: la decorazione (distrutta nel ‘700) del coro della chiesa medicea di San Lorenzo. A coronamento di un simile atteggiamento, l’acquisto di una casa nella quale tapparsi grazie a una scala che poteva ritirare a piacimento con una carrucola.

Fig. 2Ma tutto questo rinserrarsi non significherebbe poi molto se non se ne trovasse traccia nella sua opera, insomma, rivelerebbe solo un qualche tipo di stravaganza (nel caso di Jacopo un trito cliché) se non si traducesse in sostanza pittorica. Eppure, quando Renato Barilli scrive che in Pontormo: “c’è il dato moderno di un prevalere di ombre, di oscurità, nello sfondo, solo che [...] calca un po’ troppo la mano, trasformando le ombre in un muro di tenebra”3, sembra sottovalutare la portata di tale aspetto, il quale rappresenta invece un nodo cruciale dell’azione demiurgica dell’artista. Infatti, come un creatore di mondi degno di tale nome, Jacopo separa nettamente la luce dalle tenebre – come nella Cappella Capponi, dove “occhieggiano scuri nei pennacchi, i clipei con gli evangelisti, che sbucano a mezzo busto come dal buio di una soffitta”4 [Fig. 2] – e alle seconde assegna il fondamentale compito di esaltare e sostenere in primo piano le figure brillanti di luce propria. Facendo il buio e il vuoto intorno a sé e alle sue figure, inaugura un mondo che vive di sola pittura, e che esiste solo in una poetica tanto faticosamente inventata.

Quasi tutte le sue opere sono immerse nel buio, alcune nella notte piena e altre nel crepuscolo, e in molti casi le figure vi galleggiano leggere, senza sforzo. Tuttavia, se al nostro artista si riconosce senza difficoltà il merito di aver anticipato con la dissociazione di figura e spazio ciò che diverrà caratteristica dell’arte barocca, si percepisce un certo imbarazzo nel riconoscere a fondamento della sua produzione la manifestazione, spesso in singoli particolari, di aspetti perturbanti destinati a divenire norma col Romanticismo.
Fig. 3

Eppure un simile accostamento non dovrebbe risultare troppo azzardato: sia il Pontormo, sia i romantici alcuni secoli dopo, visualizzano quello spiritus phantasticus che secondo Marsilio Ficino: “al modo di virtù vivificante, forma da sé il proprio corpo”5. Macroscopico in quel misterioso capolavoro del 1528 circa che, ignorato dal Vasari, s’intitola Visitazione [Fig. 4]. Qui quattro donne giganteggiano, ma se le due di profilo che si abbracciano in primo piano sono inequivocabilmente Maria e l’anziana cugina Elisabetta, entrambe in miracolosa dolce attesa, sulle altre due presenze frontali si addensano gli interrogativi. Variamente individuate come ancelle o come sorellastre di Maria, sono anche state definite “figure gemelle”6, l’unica definizione in grado di rendere conto dell’evidenza. Infatti, si direbbero i ‘doppi’ sottilmente perturbanti delle due protagoniste, sensazione rafforzata dall’inquietante somiglianza (apparentemente solo più giovani) e dall’ambiguità di congegnate e strategiche inversioni – il fazzoletto sul capo di Maria ha lo stesso colore dell’abito dell’altra (il suo doppio), la quale ha il colletto e il fazzoletto dello stesso colore dell’abito di Maria –; nonché dalla fissità, di quella di volto e sguardo in particolare. Forse involucri del passato non ancora animati dalla grazia divina. Forse testimoni dai quali lo spettatore terreno, distante dalla santità posta in primo piano, si dovrebbe sentire implicato (guardando esse fuori dal quadro). Di fatto nel mondo del Pontormo accade anche questo, e il mistero, pure quello cristiano, indossa panni disorientanti.

Nel Cinquecento, in effetti, si afferma un clima moralizzatore che incoraggia una tendenza anticromatica, teorizzata anche in ambito letterario, e potrebbe aver favorito una predilezione per le tenebre, ma è Baldine Saint Girons, nel suo tentativo di scrivere una storia della pittura basata sulla notte, a fissare alcuni punti pertinenti anche per Jacopo: “La notte, esperienza che illumina e che insieme oscura, ci rende spontaneamente metafisici. In essa il principio di realtà e il principio di finzione sono egualmente all’opera. Giacché la notte è insieme presenza tattile che mi avvolge e mi penetra, e presenza fantastica, che dispiega sogni e illusioni, senza porsi apparentemente il problema della contraddizione”7. È affrontando la sfida rappresentata dalla resa del buio in pittura che si possono elaborare nuove leggi della visione e aprire novi universi figurativi non compresi nello spazio razionale e unitario dalla prospettiva. E sempre alla notte sembra rivolgersi Jacopo, in particolare quando elabora il suo capolavoro, la cosiddetta Deposizione [Fig. 3]. Opera controversa e liminale, non vera deposizione e neppure compianto o trasporto al sepolcro; secondo il Natali momento eucaristico con un ‘Cristo pane’. Comunque sia, illustrazione di un momento della Passione sostenuto da una tenebra indefinita (come il soggetto) con funzione di fondale cupo, verdastro, dove a una incorporea e solitaria e fantasmatica nuvola è affidato il compito di essere cielo e di costituire “l’unità di misura della consistenza di questi corpi, quasi un appunto al quale pittore e spettatore possono riferire il gruppo delle figure”8. Un sogno “colorato, come quelli che il manieristico Trattato de’ sogni di Giovan Battista Segni andrà ad indagare nel 1591 in rapporto alla patologia umorale”9, forse, ma in questo sogno Jacopo si autoritrae ai margini e materializza una mano senza padrone che afferra un braccio del Cristo quasi a trattenerlo.

Di certo rifiuterà di farsi trattenere in quel mondo il Vasari quanto scrive degli affreschi per il coro di San Lorenzo: “io crederei impazzarvi dentro et avvilupparmi, come mi pare, che in undici anni di tempo che egli ebbe, cercass'egli di avviluppare sé e chiunque vede questa pittura”10.

Fig. 4

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1 – Fede e Carità, 1513, affresco, Firenze, Museo del Cenacolo di Andrea del Sarto.

Fig. 2 – San Giovanni Evangelista, 1525.27, olio su tavola, Firenze, Cappella Capponi in Santa Felicita.

Fig. 3 – Deposizione, 1525.27, olio su tavola, Firenze, Cappella Capponi in Santa Felicita

Fig. 4 – Visitazione, 1528 ca., olio su tavola, Carmignano, Pieve di San Michele..

 

Note al testo

1 G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Roma, 1997, p. 579.

2 J. da Pontormo, Lettera a Benedetto Varchi, in, Diario, Roma, 1988, p. 90.

3 R. Barilli, Maniera moderna e Manierismo, Milano, 2004, p. 52.

4 A. Natali, Pontormo. La Deposizione, Milano, 2005, p. 44.

5 M. Ficino, Theologia platonica, XIII, 4 [p. 300].

6 P. Morel, Il Manierismo, in AA. VV., L’arte italiana. Dal IV secolo al Rinascimento, Milano, 1999, p. 369.

7 B. Saint Girons, I margini della notte. Per un’altra storia della pittura, Palermo, 2008, p. 31.

8 L. Tognoli Bardin, La Deposizione del Pontormo, inAA.VV., Il Cinquecento, Milano, 2007, vol. 2, p. 228.

9 S. S. Nigro, Pontormo. Disegni, Genova, 1991, p. 19.

10 G. Vasari, op. cit., p. 584.