I ricordi (misti) di Pontormo

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Fig. 1“L’uomo è ciò che mangia” diceva Feuerbach, e il pittore, diciamo noi, è ciò che dipinge. Come stupirsi dell’eclettismo di un Dalì – con quei baffi a manubrio – dietro a La tentazione di Sant’Antonio? E come non immaginarsi un androgino e delicato Raffaello ammirando le sue Madonne?

Ebbene il celebre pittore Jacopo Carrucci, detto Pontormo (1494-1557), era anch’egli, senza dubbio, ciò che dipingeva: tormentato, malinconico, in provocatoria controtendenza (che però fa – farà – tendenza); ma spesso ci dimentichiamo che i grandi pittori erano anzitutto uomini. Dunque anche Pontormo era ciò che mangiava? A leggere le testimonianze che ci ha lasciato (le poche conservatesi) – in verità non vennero scritte per noi, ma ad uso privato –, sembrerebbe proprio di sì. Ne Il libro mio, sorta di resoconto scritto di suo pugno delle giornate degli anni 1554, ’55 e ’56 (fino alla morte), ritroviamo descritte con minuzia le sue usanze culinarie, dai luoghi frequentati, al numero di tozzi di pane che soleva consumare, fino alla loro – necessaria – evacuazione. Ritroviamo qui un uomo ipocondriaco, incostante, spesso digiuno per intere giornate, forse già proiettato sul braccio del putto o sulla coscia della donna cui ancora doveva dar vita. È questo, infatti, il periodo in cui dedicava anima e corpo alla decorazione del coro della chiesa di San Lorenzo in Firenze (era dal ’46 che ci stava lavorando – alla sua morte fu l’allievo Bronzino a portane a termine i lavori; nel 1738, però, gli affreschi vennero purtroppo distrutti). Più appropriato, nel caso di Pontormo, sarebbe dunque dire: “l’uomo è come mangia”, ovvero un “guazzabuglio”; il tormento del visionario, innovatore, competitore di Michelangelo, si riflette, immancabilmente, in un’alimentazione umorale, spesso causa di problemi di salute. Ma, ad una più attenta lettura, Il libro mio è invero molto più che un resoconto, più che una lista dei menu offerti dalle case di Bronzino, Naldini, Varchi, Daniello: è un vero e proprio manuale ad uso personale, di carattere pseudo-medico, su salute e malattia, un breviario di precauzioni e ammonimenti, su base esperienziale – Salvatore Silavno Nigro lo chiamerà un’“autobiologia” –, sugli influssi negativi della luna d’inverno. Scopriamo così che tutti quei digiuni erano “programmati”, che Pontormo non era ilbohemien ante litteram che vorrebbe la critica novecentesca, bensì il perfezionista maniacale che probabilmente, anziché svolgere la sua missione d’artigiano nell’ombra, aspirava ad un trono nel pantheon degli artisti. È il genio che, più cerca di controllare il corpo, più questo rende visibile la discrepanza, il differente ritmo, con l’estro infervorato dell’“eletto”, creatore di mondi su tavole e tele.

Fig. 2Pontormo è concentratissimo sul suo operare: racconta il suo ultimo pasto, compiaciuto, e subito torna alle sue creature – che sembrano invocarlo – lasciate a metà, spesso riportando a fianco al pensiero scritto qualche schizzo visuale. Sembra indifferente a tutto ciò che non riguarda la sua salute psico-fisica, anche la morte (degli altri) gli passa a fianco lasciando soltanto un sottile ricordo d’inchiostro: «Martedì sera cenai uno cuore d’agnello, carne secha lessa e once 10 di pane; e cominciai quel braccio di quella figura che sta così: [schizzo]. Mercoledì morì el Tasso, e giovedì la fini’, e la sera andai a cena con Daniello: cavretto arrosto e pesce»[1].

“Carnaccia”, figure da completare, persone che vengono e se ne vanno (come vuole la natura – eventi che mai potrebbero sconvolgere un manierista come Pontormo, che la natura l’ha fagocitata e superata)[2], evacuazioni fisiche sospette, premio o sconfitta del pasto appena “esperito”. La vita di Pontormo sembra infatti una sorta di esperimento: il corpo è lo strumento col e sul quale sperimentare gli effetti del cibo, i muri del coro di San Lorenzo la materia su cui liberare la “febbre sperimentale” contratta dal bisogno d’un’espressione figurativa che sbricioli e sovrasti le vette dell’arte michelangiolesca e raffaellita (insomma: il classicismo rinascimentale). Egli, infatti, aveva iniziato il suo apprendistato in bottega da Andrea del Sarto, seguendo la scia dei grandi Leonardo, Michelangelo e Raffaello, arrivando piano a piano, dopo aver raggiunto (a detta degli stessi) risultati encomiabili, ad avvertire l’esigenza di un’originale (e personalissima) sintesi formale, la quale rompesse – inglobandolo – col passato. Nacquero così i capolavori che conosciamo: Giuseppe in Egitto (Fig. 1), la Cena in Emmaus (Fig. 2), la Deposizione (Fig. 3) tra i tanti, in cui il “nuovo spirito” pontormiano invade forme e contenuti: colori mai visti, brillanti, cangianti, fino ad allora vissuti soltanto nella sua testa; chiaroscuri voluminosi, ignari dell’imminente avvento di Caravaggio; figure sparse (aperte allo stile nordico che iniziava a stuzzicare anche Firenze), sospese o vittime d’istante e movimento eternamente intrappolati.

Fig. 3Manierista è il moto a serpentina di un Bronzino o un Parmigianino, qui, invece, siamo di fronte a qualcosa di diverso, di veramente nuovo. Oltre il manierismo. Da qui al surrealismo novecentesco il passo è, sì, lungo, ma non quanto i quattro secoli che ci vollero perché questo vedesse la luce.

Tuttavia, come di buona norma, non tutti – forse quasi nessuno – riuscirono a cogliere immediatamente il bagliore di uno stile tanto inusuale ed espressivo, che forza con la realtà esterna ed artistica. Il Vasari, analizzando il cambiamento stilistico voluto da Pontormo, tuonò così: «Et insomma, dove egli aveva pensato di trapassare in questa tutte le pitture dell’arte, non arrivò a gran pezzo alle cose sue proprie fatte ne’ tempi a dietro. Onde si vede che chi vuol strafare e quasi sforzare la natura, rovina il buono che da quella gli era stato largamente donato».Per Vasari, Pontormo avrebbe dovuto restare “michelangiolesco” – che tanto di meglio non esiste e mai esisterà. E continua, impietosito: «Ma che si può o deve se non avergli compassione, essendo così gl’uomini delle nostre arti sottoposti all’errare come gl’altri?»

Come al solito, ai posteri l’ardua sentenza.

 

Note al testo

1, Pontormo, Il libro mio, in S. S. Nigro, L’orologio di Pontormo. Invenzione di un pittore manierista, Rizzoli, Milano 1998, cit., p. 94. (Il Tasso di cui si parla non è, ovviamente, Torquato).

2, In realtà Vasari ci dice che Pontormo «Fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l’avere a incontrare morti». È dunque questo il motivo per cui Pontormo, nel suo “diario” glissa con così tanta freddezza la morte dell’amico Tasso?

 

Didascalie delle immagini

Fig. 1, Giuseppe in Egitto, 1518, National Gallery, Londra, olio su tavola, 96,5 x 109,5 cm.

Fig. 2, Cena in Emmaus, 1525, Uffizi, Firenze, olio su tela, 230 x 173 cm.

Fig. 3, Deposizione, 1526-1528, Chiesa di Santa Felicita, Firenze, olio su tavola, 313 x 192 cm.