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Fogli e Parole d'Arte

Rivista d'arte on line, ha ricevuto il codice ISSN (International Standard Serial Number)

1973-2635
il 23 ottobre 2007.

Fogli e Parole d'Arte è diretta da
Andrea Bonavoglia (Vitorchiano)
e distribuita on line dalla società Ergonet di Montefiascone (Vt).

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Fogli freschi di stampa

Prove aperte, di Marco Palladini

Ostinate presenze 

 Marco Palladini, ex attivista e protagonista politico degli anni ’70, e poi recensore teatrale, performer, drammaturgo, poeta, narratore, animatore e direttore di una rivista online e di eventi, ma sempre e comunque ex e post, senza mai tradire la memoria, l’impegno e la resistenza, anarco propositivo sempre.

Così definivo Palladini nella recensione a I teatronauti del chaos – La scena sperimentale e postmoderna in Italia, 1976-2008 (Fermenti editrice maggio2009), di cui l’attuale Prove aperte – Materiali per uno zibaldone sui teatri che ho conosciuto e attraversato (1981 – 2015) – [primo volume dei due previsti presso Fermenti, Roma 2015] è la naturale e lievemente ipertrofica integrazione. Non rinnego nulla del ritratto. Calza. Politico, performer, anarco propositivo sempre, senza mai tradire la memoria. Anzi forse con voluta ipertrofia della memoria, per farsi segno resistenziale, in epoca di pseudo morte della storia e delle ideologie, ma certo di molte derive, delirii e regressioni storiche, nel trionfo acefalo dell’ideologia della presentificazione della merce e del falso godimento.

Un titolo apparentemente dimesso questo, rispetto all’epica del teatronauta del caos. Un passo dalla volontà di sintesi alla microfisica della fenomenologia del farsi caotico quasi nel suo passo quotidiano e occasionale. Apparentemente dimesso tuttavia, se si tiene conto del riferimento leopardiano, e del conseguente laboratorio dell’io proposto come speculum dell’intero sociale. Come a dire che la resistenza parte dall’io, o per usare terminologie a lui care, è resistenza random, inserto del virus individuale nell’anomico dell’apparente casualità e occasionalità della fenomenologia della storia e dell’esistenza, così come l’omicidio delle cornici storico ideologiche ce la presenta.

Palladini sembra raccogliere in pura cronologia pezzi del suo percorso di spettatore-critico, farsi flaneur baudelairiano tra le rovine del passato, cercando brandelli d’ordine. Baudelairianamente desacralizza d’ogni aura le avventure del passato, senza togliersi però l’occasione di nostalgie, bilanci, polemiche.

Naturalmente ribadisco quanto detto allora. Ripercorrere 30 anni di teatro campionati nell’autobiografia del critico non può che avvenire per ‘carotaggi’, e per assensi/dissensi su materiali noti al recensore. Inoltre non è facile individuare l’architettura dell’insieme, e la ragion d’essere rispetto ai Teatronauti, se non vagamente attraverso l’intelligente prefazione di Cesare Milanese, che la anticipa e lumeggia, avendo potuto visionare il secondo volume, tuttavia, per una stranezza editoriale, non uscito insieme al primo.

Da quanto dice Milanese sembra infatti che la prospettiva teorica sia tutta nel secondo volume, dove al centro sono soprattutto la scena italiana (cap. 3) e interventi teorici e domande (capp. 4 e 5). Questo volume è invece una carrellata di interviste e recensioni, divise tra italiani (cap. 1) e stranieri (cap. 2), apparentemente senza gerarchia, tanto che il secondo capitolo si intitola ‘schegge’. 

Tuttavia, al di là del merito di far emergere un ‘paesaggio’, questa prima puntata palladiniana riesce a darci il ritratto vivo di alcuni protagonisti, e a salvarne giustamente alcuni dall’obblio. Inoltre, per qualche nome già ricorrente in ‘Teatronauti’, sono presenti recensioni ‘imperdibili’, e anche precoci, testimonianza della costanza e acutezza di sguardo del nostro.

Le questioni che stanno a cuore a Palladini comunque, come emergerebbero dai due volumi (in filigrana nel primo, più apertamente nel secondo, parrebbe) sono sempre le stesse: la intrinseca politicità del teatro e la sua funzione di intervento sul reale; il ruolo delle avanguardie e il loro generoso tramonto; il tradimento operato dal postmoderno (la ‘nuova spettacolarità’, coi suoi sincretismi); la necessità di una drammaturgia della parola, latitante nel II ‘900 italiano, e osteggiata tanto dal ‘teatro di regia’ quanto dalle avanguardie, e di cui Palladini è invece alfiere e intenso ‘lavorante’, sul versante di un suo particolare ‘teatro poesia’.

Interessanti sono poi alcune osservazioni di Palladini (così come le riporta Milanese, ma sarebbe utile leggerle di persona).

Intanto va detto, che pur rilevando il fallimento delle avanguardie, Palladini riconosce loro lo sforzo di lunga durata di movimentare la palude del teatro italiano, ed il merito di aver comunque seminato il nuovo, un nuovo certo poi fattosi tradimento e sincretismo di linguaggi nel postmoderno della nuova spettacolatià, di cui individua come esempio principe di alto ed indigeribile manierismo commerciale il kitsch stilistico di Lindsay Kemp.

Ma il rilievo più interessante è quello su figure laterali e pur maggiori, che hanno saputo evitare sia le secche dei codici avanguardistici che quelle della tradizione: Eugenio Barba, Dario Fo, e Carmelo Bene, da lui individuato come il maggior protagonista del teatro italiano del secondo novecento (e concordo pienamente).

Barba per aver dribblato i due corni del dilemma con la creazione del concetto di ‘terzo teatro’. Dario Fo per aver saputo attingere alle radici arcaiche e ‘basse’ del teatro e della letteratura italiana (con buona pace dei detrattori del suo nobel del 1997, Camon, Raboni e C.), la commedia dell’arte per il suo uso jazzistico del testo e della gestualità, ed il dialetto e la tradizione giullaresca. Inoltre un caso unico per la capacità di fondere a questo apporto popolaresco il livello alto della lingua, l’autorialità, la regia, la vena brechtiana epico-politica, nonché il suo magistero attoriale. Carmelo Bene per aver consumato dall’interno la figura del mattatore e la performance del testo del teatro borghese, per eccesso, sottrazione, per il paradossale salto nell’indicibile della performatività, tra dissoluzione nell’assoluto della ‘phoné’ e artaudiana crudeltà della missione.

Nel primo volume poi degni di nota sono il rilievo dato alla linea ‘politica’ di Peter Stein (intervista, p. 101), a partire dalla partitura corale della sua ‘Orestea’ (1984), la sottolineatura dell’inversione teorica operata da Ruiz, dove sarebbe il cinema ad essere debitore del teatro (e non il teatro che deve sopravvivere al cinema), e la curiosità per l’estremo del ‘teatro senza attore’ proposto da Simone Carella.

Infine non mancano nel secondo volume le critiche a persone e gruppi pur stimati (Sambati in particolare, uno degli intestatari in Teatronauti di una intera sezione), accusati di tentare scampo allo stallo avanguardistico attraverso una ‘regressione’ nell’esotismo/esoterismo. Così la visionarietà del teatro di poesia di Sambati, ed il suo personale ascetismo, sono tacciati di metafisica zen, di orientalismo pseudo artaudiano, che fanno sospettare uno slittamento new age. Ed anche il Gruppo della Valdoca, con il suo gnosticismo esoterico, sarebbe caduto in una ricerca del sacro, con uno sguardo agli archetipi africani.

Ed ora, come promesso, passiamo ai carotaggi su alcune personalità, là dove è possibile il mio più preciso interloquire: Carmelo Bene da un lato, dove il testo si inabissa, e due signori del testo, Genet e Beckett, qui molto presenti, coerentemente alla palladiniana difesa della testualità che mi trova consenziente in generale, e che trovo abbia la sua linea centrale certo in questi due autori, tra assurdo e crudeltà (ma sarebbe da esplorare di più anche Thomas Bernhard, presente con un solo exemplum).

Cominciamo da una passione che ci accomuna.

Molti sono gli interventi dedicati da Palladini a Carmelo Bene: sul recital su Campana, 1986 (I teatronauti del caos,’ p. 48, recensione), su Homelette for Hamlet, 1988 (I teatronauti del caos, p. 58, recensione, e p. 34, sulla conferenza a stampa), su l’Adelchi, 1992 (I teatronauti del caos, p. 84, recensione), sul suo destino post mortem (p. 36). Ma il pezzo più bello, ficcante ed esaustivo, è il primo in ordine di tempo (a p. 31), che prende spunto da un seminario sulla drammaturgia tenuto da Bene nel 1982. E già questo varrebbe il libro.

Dopo aver parlato di un Carmelo Bene che opera sullo sfondo metafisico della morte dell’assoluto, che mira a distruggere il falso Io a favore di una presentificazione del soggetto nel dominio della phonè, e dell’attore-narciso come sospensione del tragico nel rispecchiamento atemporale, tra silenzio e nientizzazione, Palladini individua una svolta concertistica nei modi di Bene, a partire dal Byron.

E comincia a concentrarsi il linguaggio definitorio di Palladini,

Là essendo altrove vampirizza ogni ruolo. Mediante un sofisticato apparato di amplificazione e di riproduzione multifrequenziale della voce Carmelo Bene espunge dalla scena qualsiasi dialettica; non si tratta più della dicotomica relazione tra l’Io e l’Altro, poiché l’altro viene inglobato dalla phonè, e pur tuttavia non viene annullato, ché anzi la sua ‘distanza’ rimane e perché l’evento teatrale si nutre vitalmente della sua Mancanza, ma esplicato secondo un ‘dentro che comincia con un altro dentro’ [… ] … distinzione che fa Bene tra musica e spirito della musica … scardinamento dei significati … lo spirito musicale scaturisce dall’esecuzione, mercè le sovrapposizioni realizzabili col playback, di una vera e propria partitura vocale in cui poesia è la voce. Il testo è la sua eco … vogliamo rimarcare quanto poco il ‘darsi in scena’ di Carmelo Bene si apparenti alla nozione di teatro … e quanto … la sua grammatica e sintassi siano quelle della poesia tout court.

Non si potrebbe dire meglio, anche se si potrebbero mostrare le coordinate lacaniane di questa mancanza a essere, e dell’essere giocati e detti nel giocare e nel dire. Quanto alla poesia come differenza, ricerca di grazia, indiarsi e mancanza a essere, ed in ciò come decostruzione dell’esserci in scena, nonché all’idea dell’altro inglobato nella phoné del soggetto e del suo eccedere, sembrano queste intuizioni di cui Palladini farà tesoro a breve, con la sua scrittura di Me Dea (1991/2014), dove la personificazione dell’assoluto arelazionale implode nella personificazione del tragico personaggio della tragedia greca in contraddizioni concertanti e plurifoniche, come metafora dell’ego poetante dell’autore, come altrove ebbi a notare.

Comunque sottoscrivo in toto il benismo palladiniano, e la sua esegesi, nonché il ruolo assegnatogli.

Sul versante del testo il più presente è Jean Genet, certo più consuonate di Beckett alla linea ‘sadiano-artaudiana’ di Palladini. Ci piace l’idea palladiniana del suo teatro come morte e tradimento, come un annullarsi in altro, come tensione ad essere l’altro, e non si può che consentire con la constatazione della sua saponificazione per eccesso di accettazione e mercificazione nello star sistem del maledettismo.

A messe in scena genetiane il nostro dedica molti interventi, due in Teatronauti (p. 45, Magazzini criminali, e p. 132, Motus), e due (p. 169, Le balcon, e p. 170 I negri, di Pippo De Marca), ed è interessante notare come sia critico nei confronti degli eccessi di regia del pure stimatissimo Pippo de Marca. Ha ragione. Su un testo già tutto in eccesso non si può che andare in levare.

Di Beckett sarebbe difficile dire qualcosa di nuovo, e Palladini si limita a certificare il suo assoluto nichilismo e decostruttivismo, e la leggerezza del linguaggio. Pure una notazione geniale, se è sua, è l’idea che l’archetipo del teatro beckettiano sia l’imperturbabile faccia di pietra di Buster Keaton. Non posso anche qui che concordare, essendo il teatro beckettiano un teatro di parola che si sostanzia della distruzione della parola e del senso, fino al clamore del silenzio e della gestualità di Act sans parole. E in tal senso immagino bene, pur non avendoli visti, che perfetti esecutori, in leggerezza e stilizzazione abbiano potuto essere i due spettacoli recensiti, di Peter Brook e di Bob Wilson.

Non posso che concludere tornando all’inizio. Apologia e costanza della memoria, e precocità ed acutezza di sguardo e linguaggio. Queste sono le cifre di questo diorama-cosmorama palladiniano, che confermano e prolungano la precedente prova.

  

Scheda tecnica

Marco Palladini, Prove aperte. Materiali per uno zibaldone sui teatri che ho conosciuto e attraversato (1981-2015). Vol. 1, € 20,00, 2015, Fermenti, Roma, 2015. ISBN: 978-88-97171-66-9, € 20.

 

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