Piero e la Flagellazione

La "Flagellazione" di Piero: interpretazione, committenza, finalità.

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Fig. 1

PREMESSA STORICA

Il casato mediceo, nella seconda metà del secolo XV, aveva attività bancarie che per varie motivazioni, ma soprattutto per l’errore di Cosimo di aver voluto finanziare il Ducato di Milano, non versavano nelle migliori condizioni. In alcune miniere napoletane i Medici erano coinvolti nell’estrazione dell’allume, una sostanza indispensabile nella fabbricazione dei tessuti perché usata come mordente nella tintura delle stoffe. In quel periodo fu scoperta al Sasso nei pressi di Volterra un’importante miniera di allume; Paolo Inghirami riuscì ad aggiudicarsi lo sfruttamento della miniera con una cordata societaria cui parteciparono il concittadino Benedetto Riccobaldi, i senesi Benuccio, Andrea, Conte e Salimbene Capacci, i fiorentini Gino Capponi e Antonio Giugni. Il canone pattuito per la concessione, giudicato troppo basso dal Comune di Volterra, scatenò una forte reazione della comunità locale. Il Consiglio Generale nominò arbitro Lorenzo de’ Medici, la cui conferma del contratto di locazione scatenò una vera e propria rivolta popolare. Paolo Inghirami, in forza del giudizio arbitrale a suo favore, il 21 febbraio 1472 rientrò a Volterra da Firenze con una schiera di armati; il gesto fu interpretato come un vero e proprio atto di sfida che l’uomo pagò con la vita. A quel punto le possibilità di un accordo erano del tutto compromesse, anzi era lo stesso Lorenzo a spingere per una soluzione militare per risollevare la sua immagine di leader politico. La Lega (Milano, Firenze, Napoli) fu cooptata per la spedizione militare contro Volterra; anche il Pontefice fece partecipare le sue truppe non perché intendesse proteggere gli interessi fiorentini ma perché voleva impedire che il Regno di Napoli si espandesse in Toscana tramite l’assunzione del potere a Volterra da parte del figlio di Ferrante, Alfonso Duca di Calabria. Lorenzo affidò il comando dell'esercito per la repressione della rivolta a Federico di Montefeltro; il 18 giugno 1472 le truppe della lega, dopo pochi giorni di assedio, entrarono in Volterra e la saccheggiarono.
Per la vittoria riportata il Conte di Urbino, su decreto dei Consigli, fu largamente ricompensato. Anzitutto gli venne concessa la cittadinanza fiorentina, e perché ciò non fosse una mera finzione giuridica gli venne donata una dimora, che, essendo Federico uno ”straniero” potenzialmente pericoloso, doveva esser locata rigorosamente fuori dalle mura della città. La scelta cadde sulla villa di Rusciano, che la Repubblica Fiorentina acquistò appositamente da Luca Pitti.
1 Il decreto dei Consigli Fiorentini elencava come ulteriori doni per il Conte un elmo d’argento (la cui esecuzione venne affidata al Pollaiolo),2 due bacili di argento che facevano parte degli argenti della Cappella della Signoria ed erano stati realizzati alcuni anni prima dalla bottega del Pollaiolo con alcuni boccali, un pennone che inalberava una bandiera con il giglio di Firenze, una veste da cavaliere e una bardatura per il cavallo preziosamente intessuta di seta ed oro.
Le argenterie della Cappella della Signoria furono immediatamente rimpiazzate con una nuova commissione al Pollaiolo. I doni ammontavano complessivamente a 7500 fiorini larghi, di cui circa mille rappresentavano l’ingente compenso per Antonio del Pollaiolo; un impegno così elevato presupponeva che il Conte di Urbino fosse quanto meno consenziente sul nome dell’artista se non il suo promotore unitamente a Lorenzo dé Medici. In effetti il Conte di Urbino il 20 giugno da Volterra si recò a Firenze dove rimase una settimana nella Villa di Rusciano, facente parte della futura sua donazione; verosimilmente in questo frangente fu concordato nei dettagli il complesso della ricompensa e i relativi esecutori.
3

Fig. 2 Fig. 3

La premessa storica è determinante per poter inquadrare la collocazione temporale e il messaggio della Flagellazione di Piero della Francesca, ma dobbiamo ancora insistere sull’argomento. Federico di Montefeltro nel conferire l’incarico di Capo-fabbrica del Palazzo Ducale a Luciano Laurana nel 1468 scrisse che dopo aver inutilmente cercato un architetto che avesse dimestichezza con i dettami albertiani, ripiegava sul Dalmata4. Immediatamente dopo la venuta di Federico a Firenze da Volterra nel giugno del ‘72, Luciano Laurana fu allontanato da Urbino, ufficialmente “prestato” al Re di Napoli. Antonio del Pollaiolo diveniva il referente artistico di Federico di Montefeltro sia in pittura sia in scultura sia in architettura5; Ottaviano Ubaldini della Carda, l’alter ego di Federico, ne sponsorizzava la decisione essendo un grande amante dell’opera di Van Eyck cui Antonio del Pollaiolo si era sempre ispirato6.

Antonio del Pollaiolo fece in prima persona alcune opere per il Conte-Duca, ma in massima parte elaborò progetti cui dettero esecuzione Fra Carnevale in pittura, Ambrogio Barocci in scultura e i fratelli Giuliano e Benedetto da Maiano per le tarsie lignee; Parronchi per primo nel 1971 mise in evidenza il plateale stile pollaiolesco dello Studiolo7. Le commissioni di Federico al Pollaiolo iniziarono con il busto marmoreo della consorte Battista Sforza morta per l’appunto il 6 luglio 1472; il raffronto con la Dama di Berlino di Antonio dirime ogni dubbio in proposito, vanificando le argomentazioni addotte a favore della paternità di Francesco Laurana.

Fig. 4

E’ del 23 maggio 1473 la missiva che segue, scritta da Federico di Montefeltro a Lorenzo dé Medici:

«Magnifice frater carissime, Piero mio Cancelliero parlarà a la Magnificentia Vostra sopra una certa facenda de Antonio del Pollaiolo, prego la Magnificentia Vostra quanto più mi sia possibile, che voglia et per rispetto de la vertù de Antonio, el quale merita omne bene, et per mio amore, adiutare et favorire el fatto et bisogno suo, che lo receverò per cosa gratissima da la Magnificentia Vostra, a la quale io non poria dire quanto amo el ditto Antonio, et quanto volenthiera io faria cosa che li piacesse. Sicché iterum prego di ciò la Magnificentia Vostra caramente.
Federicus Comes Urbini etc…, Serenissime Lige Capitaneus generalis».8

A parte il significato solo in apparenza commendatizio, la lettera ci prova quali fossero nel 1473 i rapporti tra il Conte e Antonio del Pollaiolo.Fig. 5

Negli anni che seguirono l’attività dell’artista fiorentino a Urbino fu intensa. Il portale della Iole riproduce le Virtù del Tribunale della Mercanzia dei fratelli Pollaiolo e la lotta di Ercole e il leone Nemeo,riconducibile alla corrispondente tela del Palazzo Medici di via Larga, secondo la descrizione fattane da Vasari9. La presenza di tarsie derivate dai disegni realizzati da Antonio del Pollaiolo e suo fratello per le Virtù del Tribunale della Mercanzia e per la tela di Ercole e il leone Nemeo, rende certo l’intervento di Antonio del Pollaiolo sulle strutture architettoniche del Palazzo Ducale di Urbino. I progetti dello Studiolo, della Cappella del Perdono e del Tempietto delle Muse sono ancora opera del Pollaiolo come aveva argutamente rilevato Parronchi10.

Per celebrare la lunga collaborazione istauratasi, il Duca decise di farsi ritrarre insieme all’artista in una tavoletta che avrebbe dovuto essere inserita nel Codice Urbinate Latino 508 Disputationes Camaldulenses di Cristoforo Landino; Antonio del Pollaiolo non era più soltanto l’artista di riferimento del Ducato, ma un cortigiano a tutti gli effetti.

Quanto riportato ci rende ragione del fatto che dopo il 1472 per un artista primo attore, come Piero della Francesca, non v’era posto al Palazzo Ducale.

 

LA FLAGELLAZIONE

Il dipinto, su tavola di pioppo delle dimensioni cm 59 x 81,5, risulta inesistente fino al 1744 quando è descritto nella sagrestia della Cattedrale di Urbino, in un inventario delle opere d’arte e degli arredi, redatto dall’arciprete Ubaldo Tosi. Nel 1839 lo storico dell’arte tedesco Passavant annotava di aver letto, sul lato del dipinto dove sono inseriti i tre personaggi in primo piano, la scritta “Convenerunt in unum” estrapolato dal libro dei Salmi (II), musicato dal madrigalista Carlo Gesualdo da Venosa: “Adstiterunt reges terrae et principes convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum eius” “Si sollevarono i re della terra e i principi congiurarono insieme contro il Signore e contro Cristo suo”. In un’ ispezione effettuata da Crowe e Cavalcaselle nel 1864 la scritta non risultava più rintracciabile, per cui si deve dedurre che fosse posizionata sulla parte destra della cornice, nel frattempo asportata. Tale ipotesi è avvalorata dal fatto che se la locuzione fosse stata posta direttamente sul dipinto, qualche traccia sarebbe ancora evidenziabile all’esame radiografico o alla riflettografia ad infrarossi. La Flagellazione passò al Palazzo Ducale nel 1916 dove fu trafugata il 6 febbraio del 1975 unitamente alla Madonna di Senigallia e alla Muta di Raffaello; il recupero dei tre capolavori avvenne nel marzo del 1976 a Locarno. Quanto ai giudizi della critica l’opera ebbe parere negativo all’acquisto da Sir Charles Lock Eastlake, inviato in Italia dalla Regina Vittoria per irrobustire i musei britannici. Il primo a darne un giudizio entusiasta fu Adolfo Venturi nel 1911 seguito da Roberto Longhi nel ’13 e ancora da Berenson che scrisse di prediligere la Flagellazione tra le opere di Piero per l’assenza di drammaticità. In effetti la fissità atemporale del dipinto rappresenta l’ estrinsecazione più rispondente dell’arte del Borghigiano. Alla valutazione dei grandi critici di primo Novecento ha fatto seguito una serie interminabile di scritti che hanno esaltato l’altissimo livello artistico dell’opera.

Sul dipinto è presente, a mo’ di firma, la scritta “Opus Petri De Burgo Sancti Sepulcri”. Le firme sui dipinti di Piero della Francesca hanno un’ evidente difformità tra di loro; nella fattispecie la scritta è sicuramente coeva, ma la posizione e i caratteri cubitali inducono a ritenere che la locuzione sia stata fatta inserire verosimilmente dal committente proprio per enfatizzare l’importanza del dipinto e del suo autore. Analoga paternità è da attribuire alla scritta convenerunt in unum della cornice che, per quanto sosterremo appresso, è da considerare estranea all’esecutore del dipinto.

 

L’IMPOSTAZIONE E L’INTERPRETAZIONE: LA DATAZIONE

Già nel 1744 l’arciprete Tosi aveva rimarcato l’ unicità di un dipinto dove Cristo viene messo in secondo piano e i soggetti principali risultano essere i tre personaggi sulla destra. Come è stato a più riprese evidenziato l’opera è divisa in due scene: nella scena di destra sono i personaggi che dominano le architetture, mentre nella scena di sinistra sono le architetture che dominano i personaggi. Possiamo pertanto distinguere una scena principale rappresentata dai tre personaggi sulla destra e una scena secondaria dove prevalgono le architetture sulla sinistra con il Cristo flagellato sullo sfondo che acquisisce un significato simbolico, avulso dal suo reale sacrificio per la salvezza degli uomini. Sorge subito una domanda sull’iconografia dell’opera: se il soggetto principale del dipinto sono i tre personaggi sulla destra perché non sono nel posto d’onore a sinistra? Una prima motivazione è evidente: Cristo non poteva essere posto a destra, ma non essendo attore principale del dipinto è a sinistra sullo sfondo; relativamente a quest’ultimo punto vedremo appresso una seconda motivazione strettamente legata alla sfera d’azione del pittore.

L’impostazione dell’opera basata sul connubio fra i tre personaggi sulla destra e le architetture sulla sinistra fa pensare a due messaggi congiunti ma separati nell’elaborazione. Come vedremo la fonte dei due messaggi è il committente, ma nelle due scene del dipinto interviene direttamente l’esecutore per dire la sua su quanto lo riguarda.

L’analisi dei tre personaggi di destra ci fornisce già a prima vista dati difficilmente confutabili. Un breve excursus storico: Oddantonio di Montefeltro, il biondo diciassettenne Duca di Urbino, sorpreso nel sonno la notte tra il 22 e il 23 luglio del 1444, nonostante il suo tentativo di nascondersi e le sue suppliche, fu assassinato da congiurati che ne deturparono il corpo, mutilandolo orrendamente degli organi sessuali, per poi buttarlo, insieme ai cadaveri dei suoi consiglieri, nella strada di Urbino adiacente il Palazzo Ducale.

Fig. 6

Mi domando come si possa negare che il giovane al centro tra i due personaggi nel dipinto sia Oddantonio, se indossa la veste da camera rosso-ducale, è soltanto lui scalzo fra i tre come chi viene sorpreso nel sonno, ha le sembianze direttamente rapportabili alle sue raffigurazioni esistenti ed è posto in strada proprio perché gettatovi dopo essere stato assassinato? Considerando superfluo continuare a disquisire sull’identità del giovane al centro, mi astengo dal riportare le interpretazioni alternative e prendo in considerazione, alla sinistra del Duca, l’uomo attempato che indossa una veste altrettanto eloquente: la stoffa arabescata con motivi a fiori di cardo parla inequivocabilmente per la famiglia Della Carda. Se la veste testimonia che si tratta di un Della Carda, chi può essere il componente di quella famiglia? In base alle datazioni più accreditate dell’opera, che si aggirano intorno agli anni Cinquanta del Quattrocento, non potrebbe che trattarsi di Bernardino Ubaldini Della Carda, morto nel 1437, raffigurato nel periodo precedente il suo decesso. Bernardino era un impavido guerriero il cui aspetto mal si concilia con quello dell’uomo dalla veste di broccato, evidentemente molto più portato alla speculazione che alle imprese militari. L’immagine del dipinto si staglia perfettamente sulla personalità di Ottaviano Ubaldini Della Carda, l’eminenza grigia del Ducato di Urbino, l’uomo dell’esoterismo e dell’alchimia, ma il riconoscimento cade immediatamente se si considera il dipinto realizzato alla metà del Quattrocento perché Ottaviano nacque nel 1424 e l’uomo del dipinto è per certo un cinquantenne. Non v’è che una soluzione: spostare la datazione dell’opera al 1475, una collocazione del tutto compatibile con il portale presente nella scena di sinistra che rimanda direttamente al portale del Guardaroba del Palazzo Ducale, realizzato per l’appunto negli anni ’70, come le altre ornamentazioni e lo scalone del Palazzo; la rilevazione fa decadere la storica datazione degli anni ‘50 su cui sono state costruite molteplici ipotesi interpretative.

Il giovane alla destra di Oddantonio, con la barba biforcuta, è anonimo ma il suo aspetto fa pensare che nelle mentite spoglie del “Turco malvagio” vi sia un personaggio che è troppo pericoloso attaccare apertamente.

Dei tre personaggi il turco “invade” la colonna della prima scena perché è evidentemente coinvolto anche in quella: ma di chi si tratta? Il riconoscimento di Roeck a tale riguardo appare ineccepibile11: è Federico di Montefeltro nei panni di un turco ma non di Giuda,come sostiene Roeck, perché sarebbe un pleonasmo. L’orientale ha i piedi in due staffe proprio per far intendere di essere la stessa persona che impersona Pilato nella scena precedente.

Fig. 7

 

Nella LegendaAurea si legge la storia “legendaria” per l’appunto di Pilato che nacque, come figlio illegittimo, dall'unione di un re di nome Tyrus e di un'umile ragazza di nome Pyla, figlia di un mugnaio. All'età di tre anni Pilato venne mandato dal re, che però aveva avuto un altro figlio, legittimo e migliore di lui in tutto; Pilato, colto da invidia e odio nei confronti del fratellastro più dotato, lo uccise. Per punirlo, il re inviò Pilato a Roma come ostaggio, al posto del tributo che doveva annualmente pagare all'Impero. Le doti di crudeltà di cui dette prova Pilato convinsero Roma ad affidargli compiti governativi in provincie difficili: il Ponto e la Giudea.
Come Pilato, Federico di Montefeltro dopo essere stato adottato da Guidantonio come suo successore, aveva perso ogni diritto con la nascita di Oddantonio e proprio come il Pilato della Legenda Aurea, Federico era stato “esiliato” a Venezia dalla primavera del 1433 all'autunno del 1434.
Nella scena di sinistra del dipinto Federico è posto nelle vesti di Pilato: lo Skiadion greco in testa (la feluca) e i calzini rossi non intendono essere riferiti a un imperatore ma all’autorità ducale di cui era stato gratificato il Montefeltro nell’agosto del 1474; Roeck sostiene giustamente, che nella battaglia di Ponte Milvio di Piero non soltanto Costantino ma anche Massenzio indossano entrambi il copricapo del tipo Skiadion, quindi per il Borghigiano si trattava di ritrarre un’autorità e non un Princeps imperiale.

La colonna su cui poggia l’idolo dorato con la sfera terrestre in mano, a parte il legame con il sacrificio di Cristo, ha la funzione di enfatizzare i moventi dell’uccisione del Duca legittimo: il denaro e il potere. Se il giovane “turco” è in realtà il fratricida Federico di Montefeltro e l’uomo dall’abito arabescato è Ottaviano Ubaldini della Carda, suo fratello e alter ego nel Ducato, la scritta “ Convenerunt in unum” estrapolata dal Salmo II e fatta apporre dal committente nella corrispondente parte della cornice trova la seguente lettura parafrasata: Federico e Ottaviano pianificarono insieme l’assassinio di Oddantonio affidandone l’esecuzione materiale a personaggi che erano stati oggetto delle vessazioni del Duca e dei suoi perversi consiglieri, Manfredo dei Pii e Tommaso di Guido dell’Agnello. E’ inutile cercare delle somiglianze chiarificatrici dei due personaggi a fianco di Oddantonio; soltanto questi poteva essere ritratto nei suoi reali lineamenti mentre i due personaggi a suo fianco dovevano restare rigorosamente criptati nella loro identità, rendendoli anche non coetanei, per non incorrere in violente ritorsioni.

Le connessioni della Flagellazione con la Legenda Aurea sono ampiamente suffragate dal fatto che Piero della Francesca si ispirò ripetutamente ai racconti di Jacopo da Varagine e del resto l’accusa a Federico e Ottaviano operata nel dipinto è fondata: lo prova quanto scrive nei Commentari Enea Silvio Piccolomini, futuro Pio II, secondo cui il Montefeltro, dimorante in quel tempo a Pesaro, all’alba del 23 Luglio si trovava già alle porte di Urbino e quindi non poteva essere all’oscuro della congiura12.

 

LA COMMITTENZA E LE FINALITÀ DELLA REALIZZAZIONE

Fig. 8Il committente della Flagellazione è verosimilmente un componente della famiglia che ha subito l’offesa dell’assassinio di un proprio congiunto. Il cerchio si restringe a due personaggi: Violante e Sveva Montefeltro, le sorelle di Oddantonio entrambe accusate di aver tramato contro Federico ed entrambe spose di Cristo dopo il matrimonio terreno. Violante, scappata a Roma insieme a Sveva presso lo zio Prospero Colonna dopo la congiura contro Federico del 1446, è esclusa come committente in quanto negli anni ’70 era estraniata dal mondo in un monastero a Ferrara.
Sveva Montefeltro è al contrario da ritenere la verosimile committente del dipinto; sposa in seconde nozze di Alessandro Sforza, Signore di Pesaro, fu accusata da questi a torto o a ragione di aver ceduto alle lusinghe di un avvenente cortigiano, Ludovico Bergolini e di aver tramato per portare il Malatesta alla guida di Pesaro. Su consiglio di Federico di Montefeltro, che si considerava parte offesa, Alessandro fece sciogliere il matrimonio e per Sveva si aprirono le porte del convento delle Clarisse a Pesaro. La donna non accettò supinamente le accuse e il sacrificio, come scritto dai suoi agiografi a sostegno della beatificazione, ma stilò un testamento in cui, ritenendosi la legittima erede del Ducato di Urbino, ne nominava successore il figliastro Costanzo, con ciò accusando Federico di essere l’usurpatore che aveva orchestrato l’assassinio del duca legittimo: “ Sana di mente e di corpo fatto il 23 agosto nel Monastero di Santa Chiara, detto del Corpo di Cristo, dell’Osservanza di S.Francesco in Pesaro dichiara erede di lei lo inclito adolescente Costanzo Sforza nelle terre, castelli, stato, Signoria, beni stabili e mobili che furono et essere possevano della felice memoria illustre signore conte Guido de Montefeltro Urbino, Durante etc. mio padre et illustre signore Oddo Antonio duca de Urbino, mio fratello”
13.
L’utilizzazione nel secolo XV del volgare nella stesura di un testamento, per evidente volere della testatrice, aveva la finalità di rendere accessibili quanto più possibile le sue volontà di esautorare Federico di Montefeltro. Entrando in convento Sveva prese il nome di Suor Serafina per immortalare di fronte a Cristo la congiura dei “Serafini”, come fu chiamato l’assassinio di Oddantonio, di cui per l’appunto fu autore più spietato il medico urbinate Serafino dei Serafini, ferito nell’onore da Manfredo dei Pii che ne aveva violentato la moglie. La sorella di Sveva,Violante Montefeltro, dopo la perdita del consorte Novello Malatesta, prese anch’essa i voti nel convento di Ferrara nel 1465 con il nome di Suor Serafina. Lo stesso nome assunto dalle due sorelle non è ovviamente casuale ma rappresenta un evidente, paritetico riferimento alla congiura contro Oddantonio.
Nel 1474 la nomina ducale di Federico, avvenuta trenta anni dopo l’assassinio di Oddantonio, quando, secondo il diritto romano ogni colpa era estinta, fece di nuovo sobbalzare lo spirito combattivo di Sveva che, divenuta l’anno seguente badessa,con l’autorità di competenza, commissionò il dipinto proprio per dare ai posteri la testimonianza della colpevolezza dell’usurpatore e del suo complice. Il fatto che la
Flagellazione sia stata elencata nell’inventario del 1744 stilato per le opere del Duomo di Urbino rende del tutto plausibile la pregressa provenienza dal convento delle Clarisse di Pesaro. Il dramma vissuto da Sveva prima di entrare in convento, il testamento e il nome assunto da consorella, supportano il suo riconoscimento come committente dell’opera le cui dimensioni rendono per di più del tutto appropriata la sua collocazione in una cella monacale. Le sembianze del Turco malvagio date a Federico nel dipinto sono verosimilmente una disposizione di Sveva; i Montefeltro avevano familiarità con il chiamare “turco” i componenti della loro famiglia che non si comportavano correttamente. Violante Montefeltro proprio in difesa della sorella Sveva si esprimeva come segue nei riguardi di Alessandro Sforza: “Il Signor Messere Alessandro è un cane et un turco et che a torto calumiava questa”14.
D’altra parte la destinazione del dipinto al rifugio segreto di un convento tranquillizzava Piero della Francesca nell’immortalare su tavola l’ attacco violento che portava a un Duca nel pieno dei suoi poteri; in ogni caso il pittore si premurò di criptare ogni messaggio, vedi la forma della scala che si vede sullo sfondo della scena di sinistra del dipinto: è un riferimento allo scalone del Palazzo Ducale di Urbino, fatto insieme alle ornamentazioni dei portali alla metà degli anni ’70; se fosse stato raffigurato a forma elicodale, come è in realtà, l’accusa sarebbe stata manifesta.
Quanto all’artista Piero della Francesca, le motivazioni per le quali era stato scelto al suo posto Antonio del Pollaiolo come referente del Duca di Urbino erano, come abbiamo anticipato, essenzialmente tre. Federico di Montefeltro voleva un architetto progettista che avesse grande dimestichezza con i dettami albertiani e per tali ragioni era stato allontanato Luciano Laurana. Il Conte e ancor più il suo alter ego Ottaviano Ubaldini desideravano un pittore che potesse direttamente realizzare o dare insegnamenti per la realizzazione di opere che fossero nello stile fiammingo di primo Quattrocento e Pollaiolo era di fatto l’alter ego di Van Eyck in Italia. Ottaviano e il Duca volevano infine allontanarsi dalla pittura cristiana che aveva pervaso il ducato per secoli e della quale Piero della Francesca era il paladino.

Se la motivazione principale per la realizzazione della Flagellazione era l’accusa da parte di Sveva di assassinio nei riguardi di Federico, altrettanto importante era l’orgoglio ferito di un grande pittore che con il dipinto voleva rispondere colpo su colpo alle valutazioni del Duca e del suo solidale Ottaviano Ubaldini. La risposta a quest’ultimo, forse il più inviso dei due a Piero, fu quella di rappresentarlo nel dipinto esattamente come avrebbe fatto un grande pittore fiammingo, tempestandone la veste di fiori di cardo. Le architetture albertiane della parte sinistra dell’opera, riflettenti sia il portale del Guardaroba sia simbolicamente lo scalone del palazzo ducale, erano un riferimento ai lavori fatti in quel periodo dal binomio Pollaiolo-Barocci che dal ’72 aveva sostituito Luciano Laurana15. Piero della Francesca ovviamente non intendeva rivendicare a sé la direzione della fabbrica di Urbino, ma attaccare direttamente Antonio del Pollaiolo complice di un fratricida, sollevando per di più dubbi sulle sue reali capacità di architetto: i capitelli ionici della Flagellazione, con otto volute a dispetto dei dettami classici, sono maliziosamente eloquenti a riguardo. Da ultimo l’aver posizionato Cristo sullo sfondo voleva far intendere che si trattava di una presenza puramente simbolica ma al tempo stesso che il grande Piero della Francesca non era soltanto il pittore delle storie cristiane.

 

LA MADONNA DI SENIGALLIA VS LA FLAGELLAZIONE

Fig. 9

Altrove abbiamo approfonditamente argomentato le caratteristiche e la paternità della Madonna di Senigallia, da noi ascritta ad Antonio del Pollaiolo16; ne riportiamo qui i dati principali.
L’opera è da considerare una pala funeraria:
il Bambino è coperto da un lenzuolo funebre, la cesta disposta nello scaffale in secondo piano contiene bende funerarie, su una parasta è dipinto un candelabro, i volti mesti dei personaggi confermano infine la celebrazione funebre di un personaggio da identificarsi in Federico di Montefeltro. La conferma alla nostra lettura si evidenzia per l’appunto nel candelabro sulla parasta in secondo piano che, come annota Battisti, dall’alto verso il basso presenta una configurazione carica di simbolismo: un torcia, un vaso e un cardo 17. Il messaggio è decifrabile: se in una pala funeraria è ovvia la presenza di una torcia il vaso sottostante fa riferimento alla devozione mariana del Rosario che si conclude con la litania recitata per il defunto (Vas Spirituale, Vas Honorabile, Vas Insigne Devotionis …). Il cardo al di sotto del vaso è altresì il riferimento all’identità del defunto: Federico di Montefeltro non era figlio naturale di Guidantonio, ma di Bernardino Ubaldini della Carda e Aura Montefeltro; tramite i suoi biografi il Duca stesso volle che fosse resa nota la sua vera ascendenza essendo di maggior suo gradimento risultare figlio di un grande condottiero. Il defunto pertanto è proprio Federico, l’ambiente, forse idealizzato, raffigura il luogo dove il suo corpo giace nel letto della stanza del retro del dipinto inondata dalla luce che diffonde dalla finestra. Il Bambino, insolitamente grande per essere in braccio alla Vergine, tiene in mano una rosa bianca, unanimemente interpretata come un riferimento alla purezza di Maria; viene da chiedersi perché la rosa sia in mano al figlio quando più correttamente avrebbe dovuto essere in mano alla Vergine, come si può osservare nella Madonna di Williamstown, opera assegnata da parte della critica a Piero della Francesca. Il fiore della tavola di Senigallia, la chiave interpretativa del dipinto, è in mano a Cristo e a Lui fa riferimento; non si tratta soltanto di una rosa bianca ma di una rosa candida, anzi della Candida Rosa dei canti XXXI e XXXII del Paradiso Dantesco:

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa

(Pd. XXXI, 1-8)

La rosa in mano al Bambino nella Madonna di Senigallia presenta in effetti una struttura circolare, che digrada dalla periferia verso il centro, costituita da un insieme di piccole parti giustapposte con dei seggi, a formare un anfiteatro. La Candida Rosa è il luogo dell’Empireo dove sono disposte le anime del Paradiso, in un anfiteatro i cui seggi,nel loro insieme, disegnano la forma di una rosa. Quanto ai personaggi del dipinto è da riconoscere in loro un doppio riferimento iconografico: Il Bambino è Cristo e allo stesso tempo Guidobaldo, come si può rilevare dalla sua somiglianza con l’erede di Federico nel Doppio Ritratto di Urbino; il suo gesto è “autorevole”, come lo definisce Bertelli18, per raffigurare sia Dio che tiene in mano l’Empireo sia il rango ducale di cui viene investito a seguito della morte di Federico di Montefeltro. La raffigurazione della Vergine comprende al tempo stesso anche Battista che in punto di morte dispose di essere sepolta nella fossa comune delle Clarisse; la parte interna del manto della Vergine, del colore dei tessuti di lana non trattati, corrisponde all’aspetto del saio delle clarisse e dei francescani nel Quattrocento. La combinazione con la zampa di ermellino vuol significare che Federico nell’Empireo si è ricongiunto con la sua sposa e sono entrambi in comunione con Maria nella Candida Rosa. Gli angeli non hanno sesso per cui le due figure angeliche del dipinto, di sesso diverso, sono da riferirsi ai mortali committenti Giovanni della Rovere e Giovanna Feltria che impersonano gli esseri tutta luce dell’Empireo; il loro aspetto di angeli custodi, di “guardiani” come li descrive Longhi19, attesta il compito che il Duca lascia loro di protezione del piccolo Guidobaldo.
La sacralizzazione di Federico fu una disposizione dei committenti ma il Pollaiolo, per parte sua, vi mise tutto il suo entusiasmo per l’onore inusitato che aveva ricevuto dal Duca poco tempo prima della sua morte e di cui a seguire faccio menzione. Cristoforo Landino nella primavera inoltrata del ’74 terminò di scrivere le
Disputationes Camaldulenses; nel primo libro dell’opera è riportata la disputa immaginata nel Monastero di Camaldoli, tra Lorenzo de’ Medici e Leon Battista Alberti sul primato della vita attiva o della vita contemplativa; il nodo del contendere viene sciolto nel secondo libro da Ficino che identifica la Vita Contemplativa con il Sommo Bene. Landino offrì in dono il manoscritto, riccamente miniato, a Federico di Montefeltro che dopo alcuni anni in cui aveva avuto Antonio del Pollaiolo come collaboratore fece sostituire la coperta dell’opera disponendo che a formare il piatto anteriore fosse una tavoletta su cui erano dipinti il suo ritratto e l’autoritratto dell’artista fiorentino in atteggiamento di reciproco slancio affettivo. Alla morte del Duca (10 settembre del 1482) il Pollaiolo volle sdebitarsi rappresentando nel dipinto di Senigallia, in un’ enfasi di sacralizzazione, l’assunzione in cielo di Federico, mondato di tutte le colpe.



CONCLUSIONI

L’attacco congiunto di Sveva e Piero della Francesca a Federico di Montefeltro e a Ottaviano Ubaldini risulta inconciliabile con attività che il Borghigiano possa aver svolto per il Duca di Urbino negli anni ’70 del Quattrocento. Di contro ha creato scompiglio attributivo la determinazione con cui Antonio del Pollaiolo criptava la paternità delle sue opere in parte per seguire il principi albertiani, ma principalmente in Urbino per non fare ombra al grande maestro locale. Ciò che risulta straordinariamente esaltante è la eccezionalità di un Museo che detiene due capolavori “ l’un contro l’altro armato”, ma accumunati anche dalla vicenda del loro furto. La Flagellazione accusa il Signore del Palazzo di assassinio e usurpazione del potere, la Madonna di Senigallia sacralizza quello stesso Signore; per la relativa vicinanza temporale di esecuzione dei due dipinti, la loro corretta lettura interpretativa ne esclude la stessa mano esecutrice, indipendentemente dalle divergenze stilistiche che, se pur evidenti, permangono sub iudice, ma delle quali voglio evidenziarne unicamente una: la fissità spaziale e temporale della Flagellazione, una caratteristica che illumina tutta l’arte di Piero della Francesca, si scontra con il procedere verso lo spettatore della Madonna di Senigallia, come in una vista 3D, secondo una costruzione spaziale paradigmatica dell’arte di Antonio del Pollaiolo.



Didascalie delle immagini

1 Piero della Francesca. Flagellazione. Urbino.Palazzo Ducale

2 In alto. Antonio del Pollaiolo. Ritratto di Dama (Studio) Gemäldegalerie, Berlino.In Basso. Antonio del Pollaiolo. Busto Marmoreo di Battista Sforza. Museo Nazionale del Bargello.Firenze. La comparazione delle due opere mette chiaramente in evidenza la paternità della stessa mano esecutrice

3 Portale della Iole. Urbino Palazzo Ducale. Le Virtù derivano dai disegni delle corrispondenti del Tribunale della Mercanzia oggi giacenti alla Galleria degli Uffizi. Firenze. La formella della lotta di ercole e il Leone Nemeo(in basso a destra) è derivata dai disegni per una delle tele della Sala Grande (a destra in alto nella ricostruzione di Bulst) di Palazzo Medici Riccardi realizzate da Antonio e Piero del Pollaiolo.

4) Fra Carnevale su disegno preparatorio di Antonio del Pollaiolo. Città Ideale. Palazzo Ducale. Urbino

5) In alto. Antonio del Pollaiolo. Autoritratto e ritratto del Duca di Urbino. Codice Urbinate Latino,Disputationes Camaldulenses. In basso. Il confronto con il Busto marmoreo di Antonio del Pollaiolo locato sulla sua tomba e derivato dalla maschera funeraria prova che si tratta della stessa persona posta di fronte al Duca di Urbino nel codice; la preponderanza del disegno e la palese ispirazione fiamminga confermano il riconoscimento.

6) Piero della Francesca. Flagellazione. Particolare. Oddantonio di Montefeltro. Palazzo Ducale Urbino. A seguire i ritratti pervenuti di Oddantonio. Anonimo. Oddantonio Kunsthistorisches Museum. Vienna. Anonimo. Oddantonio. Biblioteca Comunale di Urbania. E’ evidente che i tre ritratti si riferiscono sempre alla stessa persona.

7) Piero della Francesca. Flagellazione. Particolare. Federico di Montefeltro nei panni di un ”Turco Malvagio”. Palazzo Ducale. Urbino

8) Piero della Francesca. Flagellazione. Particolare.Ottaviano Ubaldini della Carda. Palazzo Ducale. Urbino

9) Antonio del Pollaiolo. Madonna di Senigallia. Palazzo Ducale.Urbino

 

Note al testo

 

1 ASF Urbino Classe Prima filza 7.

2 ASF Dieci di Balia alla data del 23 luglio 1472 riporta: “Antonio di Iacopo detto Antonio del Pollaiolo, di dare di XXIII di luglio Fior. novanzette sol. XII den. XX a oro largi. el quale se gli da perché se gli alocho l’elmò che dona al Signore Conte d’Urbino”. giornale F. 37.Si tratta dell’anticipo sulla cifra finale; Per il solo elmo d’argento smaltato furono pagati al Pollaiolo 500 fiorini-oro.

3 La spesa totale improntata dalla Repubblica Fiorentina per il compenso al Conte fu di 7500 fiorini di cui 6000 per la Villa di Rusciano e 1500per gli altri doni. ASF Provisioni Registri 163 CC. 82v-87v.

4 Federicus Montis Feretri et Urbini,Durantis Comes…. “ […] et avendo noi cercato per tutto, et in Toscana massime, dove è la fontana delli Architettori, et non havendo trovato huomo che sia veramente intendente et ben perito in tal mistiero, ultimamente,havendo per fama primo et poi per esperienza veduto et conosciuto quanto l’egregio huomo Mastro Lutiano ostensore di questa sia dotto et istruito in quest’arte ...”. ASF. CL I. Div.B Fa.VIII.3.11

5 Nel 1472 fu dimissionato Luciano Laurana ma Francesco di Giorgio Martini è documentato a Urbino soltanto nel 1477; nei cinque anni che intercorrono tra le due date i lavori al Palazzo Ducale andarono avanti speditamente, ma non è stato specificato chi fosse il capo-fabbrica progettista. Un elenco di Palazzo ci fornisce i nominativi degli architetti che negli anni ’70 erano o erano stati al servizio del Duca di Urbino: Luciano Laurana,fra Carnevale, Pippo Fiorentino di Ser Brunellesco, Francesco di Giorgio Martini,Scirro da Castedurante. E’ evidente che Pippo fiorentino è uno pseudonimo di chi non voleva che la sua attività al Palazzo Ducale fosse nota. E’ del tutto credibile che Pippo fiorentino fosse proprio Antonio del Pollaiolo sotto mentite, altisonanti spoglie.

6 Bartolomeo Facio riferisce nel De viris illustribus che Ottaviano Ubaldini possedeva un dipinto di Van Eyck il cui soggetto era Tre Donne al Bagno

7 A. Parronchi. Prima traccia dell’attività del Pollaiolo per Urbino. Studi urbinati di Storia, Filosofia e Letteratura. Anno XLV.1971.pp.1176-1194. Nello stesso articolo Parronchi attribuisce correttamente la Battista Sforza del Bargello ad Antonio del Pollaiolo.

8 ASF.MAP.XXIX. N° 370

9 Bulst ha effettuato una convincente ricostruzione della Sala Grande del Palazzo Medici, riportando la tarsia urbinate di Ercole e il Leone Nemeo come derivata dallo stesso disegno del pannello per il palazzo di via Larga, perfettamente rispondente alla descrizione delle tele fatta da Vasari. W. A. Bulst, Die Sala grande des Palazzo Medici in Florenz, Rekonstruktion und Bedeutung, Piero de' Medici "il Gottoso" (1416-1469), Berlin, Akademie Verlag, 1993, pp. 89-127

10 A. Parronchi. Prima traccia… Cit.

11 B.Roeck. Piero Della Francesca e l’assassino. Bollati Boringheri.2006. Pp.67-78

12 Pio II. Commentari. p.250

13 B. Feliciangeli. Sulla Monacazione di Sveva Montefeltro Sforza,Signora di Pesaro:ricerche.Flori.Pistoia 1903.p.34

14 B. Roeck. Piero della Francesca e L’assassino. Cit. p.173

15In Nomine Domini Amen.An. 1472 die 16 Octobris….Vir Magister Lutianus Martini architector olim I. Domini Nostri….” Archivio Notarile Urbino. Div.I Cas.6 Num. 169 c.89 Rog. Matteo q.Geri de Accomandi de Urbino. Nel soprascritto atto di vendita dell’ottobre 1472 Luciano Laurana veniva già definito” architector olim” di Federico di Montefeltro e con ciò è esclusa la paternità di Laurana sulla Città Ideale che è opera inequivocabilmente degli anni ’70; il tempio della Città Ideale si intravede ancora nel doppio ritratto di Federico e Guidobaldo, opera del ’76-’77,mentre la scritta Delauranna presente sul dipinto è per certo apocrifa. La Città Ideale urbinate,essendo opera di Fra Carnevale su disegno preparatorio di Antonio del Pollaiolo, mostra la coinvolgente armonia musicale dell’architettura albertiana. Le città ideali di Baltimora e di Berlino che verosimilmente fece sempre il frate ma tout seul, si presentano come un ammasso di edifici.

16 M Giontella, R.Fubini. La Madonna di Senigallia : in morte di Federico di Montefeltro ; pietà religiosa o orgoglio dinastico ?. In: Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria". 2013(2014). Pp. 51-84.

17 E. Battisti. Piero della Francesca. Tomo I°. Electa Milano, p. 302.

18 C. Bertelli. “È un mattino d’estate” La Madonna di Senigallia Restaurata. In La Luce e Il Mistero. Cit., p. 97.

19 R. Longhi; Piero della Francesca. p.95