Piero e la Flagellazione

Il Dittico del Duca e della Contessa di Urbino. Le problematiche attributive

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Fig. 1

Fig. 2

Il Dittico del Duca e della Contessa di Urbino (Figg. 1 e 2) è universalmente attribuito a Piero della Francesca dall’inizio dell’Ottocento, contrariamente a quanto accadde per la Pala Montefeltro che, fino alla monografia su Piero di Roberto Longhi del 1927, è stata oggetto di serrata disputa tra i sostenitori della storica paternità di Fra Carnevale e coloro che al contrario videro nella Sacra Conversazione la mano inimitabile di Piero della Francesca. Il Dittico, la Pala Montefeltro e la Madonna di Senigallia riconoscono la stessa mano esecutrice sulla base di inconfutabili esami scientifici confortati dalle più accurate indagini stilistiche; pertanto non vi sono che due possibilità: tutte e tre le opere sono di Piero o altrimenti non lo è nessuna di esse. Per tali ragioni le argomentazioni sulle problematiche attributive del Dittico saranno integrate con l’inserimento di problematiche attributive della Pala Montefeltro e della Madonna di Senigallia.

La prima menzione del Dittico compare soltanto nell’inventario ducale del 1599 con una descrizione molto particolareggiata ed inequivocabile “Item un quadretto doppio in tavola della felice memoria del Duca Federico et della felice memoria della Duchessa Battista sua consorte, con pitture dal roverso “. Il 23 aprile del 1631 moriva senza eredi maschi Francesco Maria II della Rovere e secondo gli accordi precedentemente stipulati con la Camera Apostolica, il 1° maggio 1631 Andrea Borgia, vicario generale del Cardinale Barberini, entrava nel Ducato di Urbino prendendone possesso in nome della Santa Sede. Le opere d’arte e gli altri beni allodiali, divenuti per disposizione testamentaria proprietà di Vittoria della Rovere, lasciarono il Ducato di Urbino in varie spedizioni; nel novero delle casse che venivano spedite a Firenze nel 1631, al numero 141 veniva registrato il doppio ritratto dei Duchi:

Nota d’argenterie et ori incassati per mandarli a Fiorenza d’ordine di quell’Altezza Serenissima: “Ritratto del Duca Federico e sua moglie Una volta a Firenze i riferimenti ai Duchi erano perduti data anche la giovane età di Vittoria; negli inventari del Poggio Imperiale del 1655 e più chiaramente in quelli del 1692 i due personaggi raffigurati nel Dittico venivano identificati come Francesco Petrarca e Laura: “Due quadretti in tavola gangherati insieme dipintovi in uno il Petrarca fino a mezzo busto e nell’altro la sua Laura con adornamento di noce, alto 2/3” (1655)1.

Due quadri in tavola aggangherati insieme alti 3/4, larghi soldi 11, dipintovi fino a mezzo busto in profilo in uno il ritratto del Petrarca, vestito di rosso con beretta simile e nell’altro Madonna Laura sua moglie, vestita di nero con maniche di drappo d’oro a opera, con collana di perle e veduta di paese : et per di dietro dipintovi in ciascuno un carro con più figure e iscrizione sotto;con adornamento scorniciato in parte e tutto dorato alto soldi 18 largo br. 2/3” (1692)2.

Il doppio ritratto entrò agli Uffizi nel 1773 con il riconoscimento iconografico di Petrarca e Laura, ma già nel 1784 una nota riferiva i personaggi effigiati a Pandolfo Malatesta e sua moglie e così rimase l’ attribuzione iconografica fino al 1825, quando il sottodirettore della Galleria Ramirez Montalvo riconobbe nel personaggio maschile il Duca di Urbino e nella scheda accanto a nomi dei personaggi comparve quello di Piero della Francesca quale autore dell’opera: “L’autore dei due ritratti qui di contro descritti sotto i numeri 76-77 è Pier della Francesca. I soggetti effigiati sono Federigo da Montefeltro e Battista Sforza sua moglie”.

Nel periodo seguente la cornice a libro fu sostituita con quella attuale: nell’aggiunta alla scheda si legge: “La di contro cornice è stata cangiata in un'altra intagliata e dorata, divisa in due partimenti nei quali si son collocati il quadro qui descritto sotto il n.76 e l’altro sotto il n. 77, e si possono girare”3. Le citazioni storiche ci danno delle precise indicazioni sulla originaria configurazione dell’opera: nella struttura a cerniera si riconosce l’ ispirazione ai polittici fiamminghi (Gand), che mostravano il soggetto principale all’interno mentre sulla parte esterna degli sportelli erano dipinti motivi di supporto. L’opera, come vedremo, assume nella versione definitiva i caratteri di un libro che rievoca la fase finale della vita di Federico di Montefeltro e il successivo ricongiungimento con sua moglie Battista Sforza deceduta dieci anni prima. A questo proposito la prima problematica che sorge riguarda la contemporaneità di esecuzione dei due ritratti e della scena del retro. Nel periodico L’Arte di Adolfo Venturi, IX anno 1906, Adolfo Cinquini ufficializzava la prova a prima vista inoppugnabile, della paternità di Piero della Francesca sul dipinto degli Uffizi. Il documento era per l’appunto estrapolato dal codice Urbinate Latino 1193 in cui è raccolta da Federico Veterani, una serie di scritti e componimenti poetici dedicati a Federico di Montefeltro, molti dei qual inviati in occasione della morte di Battista Sforza. Cinquini trascriveva un epigramma latino, scritto in Urbino intorno al 1465 dal frate carmelitano Ferabò, nel quale era diramata in versi l’ importante notizia che Piero della Francesca aveva fatto il ritratto di Federico di Montefeltro. Le vicende biografiche di Ferabò che nel ‘67 lasciò Urbino contribuivano a datare il dipinto alla metà degli anni ’60. Il documento viene ancora oggi portato come prova della paternità di Piero per il ritratto di Federico del Dittico anche ipotizzando un successivo rientro ad Urbino del frate4. L’ipotesi non è sostenibile perché Ferabò lasciò, per la sua perversione, un pessimo ricordo di sé ovunque si fosse recato, né è ipotizzabile una diversità temporale nella realizzazione dei due dipinti. Come osserva giustamente Bertelli, è improponibile che un ritratto del Quattrocento fosse eseguito, come nel caso di Federico, ponendo la fonte di luce alle sue spalle, se non vi fosse stato un altro soggetto antistante che ne avrebbe usufruito. L’analisi del dipinto porta a ben altre conclusioni: l’opera degli Uffizi, come sostiene Bertelli, è unitaria in tutte le sue parti sia per la ideazione sia per la mano realizzatrice sia per la cronologia di esecuzione.
Per l’indagine cronologica è opportuno analizzare le iscrizioni della scena tergale, erroneamente interpretata come trionfi degli antistanti ritratti; su una lapidaria romana si leggono due epigrafi in monocromi marmorizzati che recitano per Federico “
CLARUS INSIGNI VEHITUR TRIUMPHO QUEM PAREM SUMMIS DUCIBUS PERHENNIS FAMA VIRTUTUM CELEBRAT DECENTER SCEPTRA TENENTEM” (È portato in insigne trionfo quell'illustre che la fama perenne delle sue virtù celebra degnamente come reggitor di scettro pari ai sommi condottieri), e per Battista : “QUE MODUM REBUS TENUIT SECUNDIS CONIUGIS MAGNI DECORATA RERUM LAUDE GESTARUM VOLITAT PER ORA CUNCTA VIRORUM” (Colei che mantenne la moderazione nelle circostanze favorevoli vola su tutte le bocche degli uomini adorna della lode per le gesta del grande marito).
E’ da rimarcare immantinente la diversità temporale del “vehitur” nella scritta per Federico e del “tenuit” nella scritta per Battista. La Contessa morì a Gubbio di polmonite il 6 luglio del 1472; l’utilizzazione del perfetto tenuit vuol significare che la realizzazione del dipinto è stata fatta molto tempo dopo quella data, sicuramente dopo l’agosto del 1474 perché Federico in armatura indossa la mantellina rossa ducale. Una tale datazione crea già dei seri interrogativi sulla paternità di Piero della Francesca dopo quella data, ma analizzando la scena tergale in dettaglio emergono ulteriori dati molto significati per l’inquadramento temporale dell’opera. Non si tratta di due scene diverse ma di una unica rappresentazione dove le montagne e le acque passano da un lato all’altro senza soluzione di continuità.
Sulla natura stessa dei trionfi si debbono fare delle precisazioni: un trionfo è comunemente rappresentato con il soggetto trionfante che procede ricevendo il tributo del popolo spettatore; nei due dipinti sono unicamente raffigurati personaggi allegorici sui carri ma non vi è alcuno che ne saluti il passaggio. “
Insigni vehitur triumpho”, la scena è unica e quindi di un'unica celebrazione si tratta, non tra i mortali e tra mortali come nella comune accezione rinascimentale, ma di un trionfo atemporale di Federico vivificato perennemente dalla Fama che sorregge la corona d’alloro sulla sua testa. L’epigrafe sottostante conferma l’ interpretazione. 
Dei trionfi del Petrarca, ripetutamente richiamati nella letteratura del Dittico, è unicamente raffigurato il Trionfo della Fama che consente a Federico di sconfiggere la morte. Battista sul carro sta leggendo un libro che è stato identificato come un libro d’ore, ma è da escludere perché i morti non pregano. Il riferimento del sottostante epitaffio alle Tusculanae Disputationes di Cicerone nel passo del I libro che tratta della immortalità dell’anima e della fama dei giusti, ci induce automaticamente a sostenere che la Contessa stia leggendo, per il suo sposo, il testo ciceroniano5nel quale tra l’altro si legge l’epitaffio del poeta Ennio:

Aspicite, o cives, senis Enni imaginis formam
Hic vestrum panxit maxima facta patrum?
Mercedem gloriae flagitat ab iis quorum patres
Adfecerat Gloria ;idemque: Nemo me lacrimis…cur?
Volito vivos per ora virum.

Guardate, o cittadini, il ritratto del vecchio Ennio, è lui che ha cantato le grandi imprese dei vostri padri / La gloria egli vuole come ricompensa, da quelli a cui ha reso gloriosi gli antenati; e ancora: Niente lacrime per me. A che servirebbe? Vivo in volo sul labbro degli uomini”.

I legami dell’epitaffio di Ennio con l’iscrizione per Battista defunta sono molto di più di un semplice riferimento. Cristoforo Landino tenne lezioni nello Studio Fiorentino sulle Tusculanae Disputationes; ispirandosi all’opera ciceroniana l’umanista fiorentino scrisse nel periodo 1473 –’74 le Disputationes Camaldulenses, una disputa immaginata a Camaldoli nel 1469 tra Leon Battista Alberti e Lorenzo dé Medici sul primato della vita attiva o della vita contemplativa. L’opera è divisa in quattro libri ognuno dei quali ha nell’introduzione la dedica a Federico di Montefeltro, il campione rinascimentale della sintesi di ozio letterario e impegno civile. Landino fece dono del manoscritto sontuosamente miniato a Federico di Montefeltro che rispose con una lettera di sentito ringraziamento. E’ forse più di un’ipotesi che alla morte di Federico sia stato proprio Landino a scrivere le due epigrafi latine per il Dittico; se così fu, quegli scritti venivano da un mondo culturale fiorentino precluso a Piero della Francesca.

L’analisi dei cosiddetti trionfi ci fornisce decisive indicazioni sulla collocazione temporale dell’opera. Come abbiamo veduto non si tratta di due dipinti separati con simbologie e significati diversi, ma della rappresentazione di un ricongiungimento di due sposi. Federico si fa incontro alla donna su un carro nobilitato dalle Virtù Cardinali e dalla Fama, mentre Battista arriva su un carro dove sono disposte le Virtù Teologali; sorge spontanea la domanda: quando uno sposo si ricongiunge con la consorte morta da tempo? Soltanto quando anche lui lascia la vita terrena, né è sostenibile che il vivente possa aver fatto inserire per sé un’epigrafe celebrativa della sua fama perenne, accanto all’epitaffio della sposa deceduta.
La scritta al presente posta sotto l’immagine di Federico indica che il Duca è morto poco tempo prima della realizzazione del dipinto ma, per la sua fama, figura e figurerà per secoli come vivente nella mente degli uomini; il verbo al passato per la dicitura di Battista indica che il suo abbandono della vita terrena datava ormai da più di due lustri. Le fratture geologiche presenti nel terreno enfatizzano la separazione dei due personaggi dal mondo dei mortali; la luce irreale della rappresentazione, definita lunare, assume, in base alle considerazioni precedenti, una connotazione ben precisa: è la luce dell’aldilà
6. La disposizione dei personaggi nel doppio ritratto conferma quanto sostenuto: nella parte interna del “libro” Federico, ancora vivente, è a destra perché deve cedere il posto d’onore alla consorte deceduta; nella scena tergale Federico è ormai spirato e quindi spetta al suo carro la posizione a sinistra.

Se il Dittico è stato realizzato dopo la morte di Federico (10 settembre 1482), la paternità di Piero della Francesca non è più soltanto problematica, ma improponibile. Il Borghigiano ha continuato a dipingere nel suo stile idealizzato sino alla fine degli ’70; non è neanche ipotizzabile che negli anni ’80, nell’imminente cecità, stravolgesse la sua educazione artistica e il suo operato. Da considerare inoltre che morto Federico il tutore di Guidobaldo e verosimile committente del Dittico era Ottaviano Ubaldini della Carda, l’eminenza grigia del Ducato, uomo dedito all’esoterismo e all’alchimia, che non aveva certo a cuore la pittura cristiana di Piero della Francesca. L’opera degli Uffizi in effetti si staglia a perfezione sulla personalità dell’Ubaldini; vi si legge un neoplatonismo quasi esasperato, inconciliabile con l’ortodossia cristiana, di matrice strettamente fiorentina, impensabile in Piero della Francesca.

Fig. 3

Passando ad analizzare gli aspetti stilistici del problema prendiamo innanzi tutto in considerazione i paesaggi del Dittico. Al primo impatto si nota un’impostazione degli sfondi con linea di orizzonte molto alta che stride con la pittura pierfrancescana. Valutando in dettaglio la rappresentazione dei paesaggi non ci si può esimere dal rimarcare l’abissale diversità dallo sfondo della Natività. Il dipinto oggi giacente alla National Gallery di Londra fu eseguito quando la parabola artistica di Piero della Francesca era giunta a compimento ed ha una paternità del Borghigiano giudicata probante dalla critica (Fig. 3). Orbene, il paesaggio ivi rappresentato, indipendentemente dal fatto che sia finito o non finito, mostra un’impostazione quasi amatoriale, già dileggiata da Venturi, che non può in alcun modo essere avvicinata al capolavoro degli Uffizi. Né si può portare la scusante dell’intervento di un allievo; colui che ha dipinto i paesaggi del Dittico non avrebbe mai consentito che una sua opera potesse mostrare un paesaggio come quello dell’Epifania londinese. Di contro proprio alla Galleria degli Uffizi è conservato I tre Arcangeli e Tobiolo, che ha avuto attribuzioni controverse, ma con un indirizzo pressoché unanime nel riconoscervi l’intervento di due mani diverse; in effetti al primo impatto si rileva una sostanziale differenza stilistica e qualitativa tra l’Arcangelo Michele e il paesaggio da un lato e gli altri due Arcangeli e Tobiolo dall’altro (Fig. 4).

Fig. 4

Michele e il paesaggio sono un preciso riferimento per la Pala Montefeltro e il Dittico; i riflessi di luce sulla corazza di Federico e di Michele sono realizzati con ispirazione fiamminga, ma nella stessa personale interpretazione. Il paesaggio retrostante i tre Arcangeli mostra l’ impostazione con vista a volo d’uccello, la precisione di dettaglio e le stesse connotazioni dei paesaggi del Dittico. Un ulteriore rilievo stilistico dirime ogni dubbio sul legame dei due dipinti urbinati con la prestigiosa tavola fiorentina, che non ha nessun legame con Piero della Francesca: le perle così particolari di Battista, trasparenti come diamanti, trovano una sovrapponibile soluzione in quelle che agghindano il collo dell’arcangelo Michele, in un’interpretazione particolarissima e qualitativamente eccelsa, riconducibile senza esitazioni alla stessa mano esecutrice.

Fig. 5

Passando ad analizzare i due ritratti si rilevano problematiche parimenti consistenti. Cinquini, descrivendo la Battista del Dittico, evidenziava il suo volto sfiorito e l’aspetto melanconico7; in effetti se osserviamo i ritratti dallo sfondo in progressione verso i due Signori di Urbino la sensazione è quella di una “Celeste Melanconica Armonia”. Il tema della melanconia come condizione dell’anima di coloro che sono dediti alla speculazione , anche se estesamente sviluppato da Ficino nel De Vita alla fine degli anni ‘80, compare già nella Theologia Platonica, elaborata tra il 1469 e il 1474 ma pubblicata nel novembre del 1482, il periodo in cui è da far cadere la realizzazione del dipinto8. La malinconia, giudicata fino al secolo XV profondamente negativa per l’essere umano, diviene con il Neoplatonismo un fattore positivo in quanto dona all’anima cognizione della sua grandezza e l’ avvicina agli dei.

Ficino, figlio di Saturno, sosteneva che l’habitus melanconico è il sentire idoneo per le attività intellettuali più alte. L’arte seguì, nel Rinascimento, l’indirizzo del pensiero; i grandi maestri fiorentini furono spinti verso l’astrologia, la mitologia, l’ermetismo e il simbolismo, per la consapevolezza che l’ideazione artistica si avvicinava sempre di più alla filosofia. Ficino si allontana dal pensiero platonico ortodosso quando inserisce l’“harmonia” in luogo della “temperantia” tra le idee che l’anima contempla nel suo periplo; così facendo l’Accademia di Careggi getta un ponte verso il movimento filosofico generatore del Platonismo, il Pitagorismo che assegnava ai numeri la organizzazione della intera realtà, riconoscendo in essi un rapporto costante e armonico. La melanconica armonia dei volti dei due Signori di Urbino vuol proprio far intendere l’alto valore spirituale e culturale dei due personaggi, un simbolismo che non ha alcun legame con l’arte di Piero della Francesca.

I due personaggi ritratti sono stati descritti come compenetrati nei paesaggi minuziosamente rappresentati alle loro spalle, ma al tempo stesso si è sostenuto che lo sguardo di Federico tradisce l’indagine metafisica. La Metafisica è l’indagine razionale operata sull’essere in sé, avulsa dalla esperienza sensibile; la presenza sullo sfondo del paesaggio di ispirazione fiamminga esclude il trascendente.
Federico e il paesaggio alle sue spalle sono effettivamente compenetrati tra loro ma la lettura del connubio è, a mio avviso, da articolarsi diversamente. Il binomio classicismo-naturalismo presente nel dipinto può essere interpretato come la trasposizione artistica dell’ unione della vita attiva del condottiero (l’Imperator del Cortile d’Onore del Palazzo Ducale), con la vita contemplativa rappresentata dal paesaggio idilliaco.
Lo sguardo di Federico, nel momento del trapasso, esprime, oltre il ricordo della vita felice passata con Battista, la rivisitazione dello sforzo, operato per tutta la vita, nella continua ricerca della sintesi di contemplazione ed azione di cui l’impresa di Volterra, riproposta davanti ai suoi occhi, ha rappresentato il momento più fulgido e al tempo stesso il più angosciante nella sfera affettiva.
Il volto della Contessa è stato definito inespressivo, ma a mio parere si tratta piuttosto della raffigurazione di uno stato melanconico rappresentato su un volto tratto dalla maschera funeraria; il pallore raffigura la luce di cui fu inondata dalla grandezza spirituale del coniuge, mentre il colorito cereo indica che Battista è ormai morta da tempo. Nella scena tergale i liocorni tirano il carro della donna simboleggiandone la purezza, che trova ulteriore riscontro nella collana di perle dell’antistante ritratto, splendenti di una trasparenza adamantina. La minuziosa realizzazione dell’acconciatura della Contessa fa pendant con la precisione riproduttiva del paesaggio, in una visione microscopico-telescopica che evidenzia un perenne coinvolgimento dell’autore con l’arte fiamminga.

Da ultimo, una considerazione stilistica può appagare chi si affida nel giudizio unicamente alla sensazione visiva: la mascella di Federico per la sua fattura e tridimensionalità fa preciso riferimento ad una mano che praticava la scultura.

Fig. 6

Fig. 7

 

Fig. 8

Come anticipato in apertura integriamo le problematiche del Dittico con quelle della Pala Montefeltro e della Madonna di Senigallia. 

Il volto di Maria ha subito un erroneo restauro negli anni cinquanta; la foto Brogi di inizio Novecento ci permette di poter ancora apprezzare il vero volto della Vergine e al tempo stesso ci consente di poter escludere che quel volto sia uscito dalla mano di Piero. L’affiancamento dei due volti prima e dopo il restauro degli anni cinquanta è da un lato disarmante e dall’altro costituisce un duro monito per chi si appresta ad intervenire su un dipinto per restaurarlo.

Nel volume di approfondimento della Pala Montefeltro realizzato dalla Soprintendenza di Brera si legge:

«La particolarità tecnica della preparazione scoperta lungo i margini delle figure si ritrova anche in un’altra zona critica della pala di S. Bernardino, quella delle mani del Duca…. va sottolineato come, osservando le stesure pittoriche delle zone che fanno da sfondo alle mani di Federico di Montefeltro, si noti che sono state dipinte successivamente a queste, con pennellate che “evitano” e seguono, nel loro andamento, la campitura delle mani, tecnica di esecuzione che risulta particolarmente evidente in riflettografia, vanificando quindi l’ipotesi di incompiutezza. Inoltre le analisi chimiche degli strati pittorici, effettuate su prelievi presi nella zona delle mani, indicano in modo inequivocabile la presenza di due strati di stesura di colore, legato con diversi tipi di olio»9.

Dall’esame radiografico della pala si rileva che l’autore ha effettuato altre correzioni: ha tolto il gioiello che splendeva sulla fronte della Vergine ed ha ampliato le capigliature degli angeli, in modo particolare dell’ultimo alla destra; è evidente che tali correzioni, unitamente alla trasformazione delle mani nella soluzione marcatamente verista di oggi, sono state eseguite contemporaneamente dallo stesso autore su indicazione di Federico di Montefeltro, il principe che voleva sempre dire l’ultima parola sulle sue commissioni.

Squalificare il dipinto sostenendo che fu abbandonato da Piero per essere terminato da altri è comprensibile solo per l’intento di poter continuare a sostenere una paternità che risulta obiettivamente insostenibile.
Uno degli argomenti forti su cui all’inizio del Novecento facevano forza coloro che sostenevano la storica paternità di Fra Carnevale sulla Pala Montefeltro, era la stretta vicinanza del volto verista di Federico e quello raffigurato sul piatto anteriore del codice urbinate latino 508, Disputationes Camaldulenses, un’immagine talmente verista da potersi considerare antitetica allo stile di Piero.

L’uovo pendente nell’abside è stato giudicato da Venturi una trovata naturalistica contrastante con l’architettura rinascimentale e indegna di Piero; il giudizio di Venturi può sembrare sopra le righe, ma trova giustificazione nella valutazione di un pittore le cui opere inequivocabilmente autentiche lasciano trasparire il loro legame preponderante con il filone idealizzato della pittura10

Fig. 9

Quanto alla Madonna di Senigallia, Venturi nel disconoscerne la mano di Piero della Francesca scrisse che non vi si poteva rinvenire l’ovoide dei volti, tipico nelle Madonne del Borghigiano, ma al contrario una conformazione allargata in alto che si restringe a punta sul mento;11 è la stessa impostazione che si riscontra nella Pala Montefeltro prima dell’erroneo restauro degli anni Cinquanta.

 

 

 

Didascalie delle immagini

Fig.1) Dittico del Duca e della Contessa di Urbino. In alto, i due ritratti; in basso l’inserimento del 1825 dei ritratti nella cornice attuale. Galleria degli Uffizi, Firenze.

Fig.2) Dittico del Duca e della Contessa di Urbino. In alto, i cosiddetti trionfi formano una scena unica che celebra il ricongiungimento post-mortem di Federico e Battista; in basso, l’inserimento del 1825 nella cornice attuale. Galleria degli Uffizi, Firenze.

Fig.3) I tre Arcangeli e Tobiolo. Galleria degli Uffizi. Firenze.

Fig.4) Piero della Francesca. Natività. National Gallery. Londra

Fig.5) A sinistra, I tre Arcangeli e Tobiolo, particolare del paesaggio; al centro, Ritratto di Federico nel Dittico, particolare; a destra. Natività di Londra, di Piero della Francesca, particolare. E’ evidente una stretta affinità nel costruzione del paesaggio di stile fiammingo del Dittico con I tre Arcangeli mentre non si rileva alcuna affinità del Dittico con il paesaggio della Natività.

Fig.6) Pala Montefeltro oggi. Pinacoteca di Brera Milano

Fig.7) Pala Montefeltro, foto Brogi, fine del secolo XIX, particolare. Archivio Alinari, Firenze.

Fig.8) Pala Montefeltro, particolare. A sinistra, il volto di Maria prima del restauro degli anni ’50; a destra, il volto di Maria dopo il restauro degli anni ’50. Improponibile la paternità di Piero della Francesca sul volto di sinistra.

Fig.9) Madonna di Senigallia. Urbino . Palazzo Ducale. Galleria Nazionale delle Marche

 

Note con rimando automatico al testo

1 ASF, Guardaroba Mediceo, Inventario 1655, 1052, c. 42.

2 ASF, Guardaroba Mediceo, Inventario 1692, 1174 c. 1092 ed anche ASF, Guardaroba Mediceo 1057 c. 288.

3 A. Conti, Francesco Petrarca e Laura: uno strano ritratto. “Prospettiva” n. 5, 1976, p. 59.

4 Al foglio 114 del Codice Urbinate Latino 1193 è riportato l’epigramma di Ferabò con la seguente introduzione: “Imago eiusdem Principis a Petro Burgensi picta alloquitur ipsum principem”. Cinquini nello scritto del 1906 riportava i versi con i quali Paolo Mansi ammoniva la gioventù perugina a non frequentare l’insano frate carmelitano. A. Cinquini, Piero della Francesca a Urbino e i ritratti degli Uffizi, “L’Arte”, Miscellanea, Anno IX, 1906, p. 56.

5 Battista aveva partecipato alle Jucundissimae Disputationes, all’inizio degli anni ’60, insieme a Martino Filetico e al fratello Costanzo ed essa stessa nell’ambito della disputa rende noto di tenere sempre un testo di Cicerone su un mobiletto vicino al suo letto. M. Bonvini Mazzanti, Battista Sforza Montefeltro: una "principessa" nel Rinascimento italiano, Urbino, Quattro Venti, 1993, p. 117.

6 Castelli ha messo in rilievo due importanti elementi nella lettura iconografica del Dittico. A) Le epigrafi hanno una cadenza metrica che consente di ricondurle a strofe saffiche; il dato conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno, l’alto livello culturale che si cela dietro il dipinto. B) I trionfi non hanno nulla di religioso ( sono al contrario l’aspetto più chiaramente percepibile della complessa impostazione neoplatonica dell’opera). P. Castelli, Ricerche e studi sui “Signori del Montefeltro” di Piero della Francesca e sulla Città Ideale, Edizioni Quattro Venti, 2001, pp. 45 e 47.

7 A. Cinquini, Piero della Francesca a Urbino e i ritratti degli Uffizi, “L’Arte”, Miscellanea, Anno IX, 1906, p. 56.

8 M. Ficino, Teologia Platonica, Zanichelli, Bologna, 1965, IV, vol. 7.2, p. 233.

9 E. DAFFRA, F. Trevisani, La Pala di San Bernardino.., op. cit., p. 178.

10 A. Venturi. La Pittura del Quattrocento. Cit., p. 106.

11 A. Venturi. Storia dell’Arte Italiana. Cit., p. 480.